
Sull’Indice dei libri del mese di settembre 2021 la mia recensione
Marta Dillon, Aparecida, Gran vía, 2021, 224 pagine, traduzione di Camilla Cattarulla, 16 euro.
Divideremo la narrativa dedicata all’ultima dittatura argentina e alle sue vittime (1976-1983) tra un prima e un dopo Aparecida? La risposta è: sì, molto probabilmente. Il libro di Marta Dillon (giornalista, attivista femminista, tra le fondatrici di #Niunamenos) risale al 2015, e Gran vía ne ha pubblicato un’ottima edizione grazie alla traduzione e cura di Camilla Cattarulla, autrice anche di preziose pagine che l’introducono e orientano il lettore fra i temi di una storia non sopita nella sua atrocità. La conosciamo, purtroppo, questa storia. Trauma del tardo Novecento, ferita collettiva del tempo che di poco ci ha preceduti, in quanto tale ci convoca. Ma, se leggiamo Aparecida (e l’auspicio è che molti lo facciano), incontriamo un testo che ravviva il racconto e ne dispone un senso nuovissimo. Volendo riassumere in una formula (per citare un’altra opera seminale, quella di Miguel Bonasso): Dillon supera il ricordo della morte e lo trasforma in ricordo della vita. Ma è solo una semplificazione, la si prenda con cautela.
Aparecida è la storia di una madre scomparsa, assassinata, poi ritrovata. E la racconta sua figlia. Non è un romanzo. Non potrebbe esserlo, qui la realtà è troppo dura e inobliabile. È un ibrido tra biografia, autobiografia, memoir, cronaca privata e pubblica. Il suo tempo è scandito da due date. Nel 1976 Marta Traboada sparisce: avvocato, militante del Movimiento Revolucionario 17 de Octubre, i militari la sequestrano a Buenos Aires davanti ai quattro figli, una di loro è Marta Dillon, dieci anni di età. Nel 2010 Dillon, in viaggio assieme alla compagna e al piccolo figlio, riceve una telefonata dall’Équipe Argentina di Antropologia Forense: hanno ritrovato e identificato i resti di sua madre. C’è un corpo che riappare e si può seppellire, al quale si può dire addio. In mezzo: 34 anni di desaparición, l’intera vita di una figlia accompagnata dalla presenza/assenza della madre sottratta, ricordata, cercata, anche dimenticata, entro quel rapporto elastico, ambiguo tra memoria e amnesia che, come scrive Dillon, connota la vita di molti familiari delle vittime: «Cercare è una parola spinosa quando si tratta di desaparecidos, perché in verità non è così chiaro che li cerchiamo (…). Quello che si cerca è un materiale residuale».
E così, in dodici capitoli frammisti a undici finestre di prose brevi, poesie, sogni, ricordi, Marta Dillon racconta il «materiale residuale» che ha inseguito e trovato. Il passato remoto di una madre mai ritratta soltanto come vittima, invece esposta nella sua ereditaria vitalità politica, esistenziale, intima e domestica. Il passato prossimo di una figlia divenuta a sua volta militante di memoria e giustizia (Dillon è membro di Hijos). Infine il presente delle indagini, il corpo recuperato, «quattro ossa e un cranio con la mascella inferiore incassata», «così poco che avrei potuto avere più resti dopo una cena a base di pollo». Qui le pagine più toccanti del libro, dove tutto, non solo le ossa materne, diventa supernova, accende la vita passata: una maglietta con le maniche tagliate, indossata dalla madre durante la prigionia, l’avanzo di uno zoccolo di sughero…
Ma Aparecida offre anche un’altra forza, là dove Marta rivive in Marta, in una genealogia della militanza. Dillon – erede di una madre combattiva che le scriveva biglietti del genere: «Per Martita, la mia compagna, che sta imparando a sentire sue le gioie e le lotte del popolo latinoamericano» – racconta come abbia trovato sé stessa, costituendosi a propria volta un’identità engagé. Assistiamo a una cronologia di estrema coerenza, è un filo rosso di diritti rivendicati, conquistati: dalla riapertura dei processi contro gli assassini della Giunta militare sino alle nuove leggi de Matrimonio Igualitario (2010) e de Identidad de Género (2012); qui vita privata e pubblica si incontrano nel “regno” di Nestor Kirchner, il presidente cui si deve la ripresa di molte battaglie politiche e civili. Proprio il giorno dei funerali di Kirchner, in una Buenos Aires attraversata dal corteo che ne scorta le spoglie, Marta sposa la propria compagna, ora che le è legalmente consentito.
Come una veglia funebre perpetua, il libro di Marta e Marta avanza di pagina in pagina. Eppure è la vita a prevalere sulla morte. Persino quando il funerale di Marta Traboada viene effettivamente, e pubblicamente, e politicamente, celebrato: «Adesso era chiaro, mamma stava tornando», «l’avremmo accompagnata nel viaggio che va dall’anonimato al territorio dei morti ricordati, lì dove avrebbe potuto continuare a dire da sola: Sono qui, ai miei tempi ho saputo cos’è la primavera, sono stata madre, sorella, questi sono i miei congiunti».
Aparecida è la storia esemplare di come si possa ereditare non lo stigma della sconfitta e la dannazione a soccombere, ma il coraggio “felice” di vivere. Da una madre a una figlia. E per le generazioni future. Bisogna ringraziare Marta Dillon per averlo scritto.
davide orecchio