Carlo Levi e il cielo di Roma

«Il cielo di Roma non è così alto come quello delle città del Nord, come quello grigio-azzurro di Parigi, che pare stendersi per infinite migliaia di leghe visibili in prospettiva sulle nostre teste, o come quello stranamente colorato di Londra, o quelli esotici e tempestosi d’America; ma è ricco, denso, popoloso, gremito di nubi barocche, pieno di curve mutevoli, appoggiato sulle case, sulle chiese e sui palazzi come una cupola fantastica che il vento fa girare e avvolgere, spaziando qua e là, seguendo bizzarro, come un cane che segue una pista, una sua aerea geometria, un suo mobile ritmo.

[…]

Tutta la città si apriva davanti a me, in una successione infinita di tetti, di terrazze, di finestre, di cupole, in una distesa chiara di grigi aerei, di gialli leggeri, di rosa dorati, di intonaci trasparenti di vecchiaia, appena un po’ viola nelle ombre. Ogni cosa era nitida e lontana, immersa in un’area visibile e colorata, dove pareva circolassero miriadi di impalpabili corpuscoli d’oro».

Carlo Levi, L’Orologio (1950), Einaudi 1989, pp. 24, 133.