La nuova edizione di Città distrutte

Il Saggiatore pubblica una nuova edizione di Città distrutte (in libreria dal 12 aprile 2018), con una bellissima postfazione di Goffredo Fofi. E’ il mio primo libro di narrativa. Una raccolta di racconti uscita la prima volta a dicembre 2011/gennaio 2012 per Gaffi editore. Questa nuova edizione apporta poche modifiche: qualche refuso corretto, un nome proprio che cambia. Ho preferito lasciare il testo originale, senza cedere a smanie di riscrittura.

Anni fa, quando il libro stentava a trovare un editore (i rifiuti furono tra i dieci e i quindici, non ricordo più il numero esatto) mi arrivò una scheda di lettura (bocciatura) che tra l’altro diceva:

«Il manoscritto non ha il giusto appeal per il mercato editoriale».

Ora, io di mercato editoriale e giusto appeal non ne so nulla, quindi non posso dare torto né ragione alla scheda, ma alla fine Città distrutte se l’è cavata, ha avuto buoni riscontri di critica, ha vinto dei premi letterari e di editori ne ha trovati addirittura due. All’epoca, quando si annaspava, non avrei saputo né potuto immaginare questo esito.

L’approdo al Saggiatore (che mi rende felice e, quando ebbi la notizia, mi emozionò) è stato naturale, vista la presenza nel catalogo di Stati di grazia e del prossimo libro, e considerata la sintonia col percorso intrapreso dal direttore editoriale Andrea Gentile e, finché è stato consulente della casa editrice presieduta da Luca Formenton, con Giuseppe Genna, che mi ha sempre dato consigli preziosi e concesso una stima immeritata.

Non riesco a scrivere altro sul mio esordio, perché temo di andare sopra le righe ed esagerare, e perché un esordio ha in sé molti temi extraeditoriali, personali, famigliari, e in questo caso qualche lutto e cicatrice che han determinato i tempi e i modi della mia scrittura.

Preferisco lasciare la parola a un amico, Tarcisio Tarquini, che fu tra i primi a leggere i racconti e li aiutò in modo decisivo, presentandoli alla redazione di Nuovi Argomenti. Le righe sotto vengono da un post che nel 2012 Tarquini pubblicò sul suo blog (Rendiamoci Conto) oggi chiuso. Ma io le avevo conservate.

«Il libro di Davide Orecchio […], per la battagliera onestà dei critici e scrittori di Nuovi Argomenti e, in particolare, di uno dei direttori, Raffaele Manica e, successivamente, dello scrittore Andrea Carraro, […] è arrivato a un piccolo (ma perché?) editore altrettanto coraggioso come Gaffi e finalmente è stato pubblicato, incontrando – dopo un po’ di tempo e per l’autorevole segnalazione di Daniele Giglioli, sul supplemento domenicale del Corriere della Sera – il pubblico e il successo dovuti».

[…]

«Ci tengo a rivendicare pubblicamente il merito (tutto privato, naturalmente) di aver seguito la gestazione di questi racconti e, per quanto è potuto valere, di aver incoraggiato l’autore di fronte ai dubbi che sempre spuntano a un certo punto della fatica e perciò una rassicurazione può placare l’ansia, il timore di non essere pari alla prova».

[…]

«La complessità e la ricchezza della trama della scrittura di Orecchio non sono lo sfarzoso sfoggio di un talento coltivato da letture e studi (oltre che dalla padronanza di diverse lingue e letterature) che offrono vie e punti di vista non scontati, preziosi, al suo modo di guardare e perciò di raccontare. Sono lo strumento, o il materiale, necessario per ricostruire, incollandone i pezzi dispersi, le architetture frantumate, le volute crollate, i muri portanti sbriciolati dalla tremenda energia della storia che, per un vincitore (o apparentemente tale) che lascia in piedi, come testimonianza del suo violento trascorrere, annienta tutto il resto: le macerie di quelle tante opere d’arte, disperate e vitali, che sono la vita di ciascuno di noi – di chi è venuto prima e di chi verrà dopo – che uno scrittore può osservare con la pietà che cerca, tra i calcinacci, di ricomporre il quadro distrutto, di decifrare il messaggio ancora pulsante che quella vita – ormai diventata muta – ha voluto emettere per parlare ancora».

Tutti i libri hanno una storia. E Città distrutte, nel suo piccolo, non fa eccezione.

Non essere

Esattamente 10 anni fa, di questi tempi, concludevo la stesura di un manoscritto che s’intitolava Città distrutte, e iniziavo a mandarlo in giro. Senza immaginare che avrebbe atteso 4 anni la pubblicazione. In realtà senza immaginare nulla di nulla.

Fu un inverno da covo. Anche la mia compagna lavorava a una ricerca e quel gennaio, quel febbraio, uscimmo poco la sera. Ripresi a suonare la chitarra, imparai le accordature aperte, guardavo film di Hitchcock e concerti dei Radiohead. Ero abbastanza felice. Avevo messo il tempo in letargo: è un evento esistenziale rarissimo che si giova del non avere progetti né malattie, e del godimento di musica, cinema, letteratura. Necessita pure di un’inclinazione domestica, casalinga; o dell’esatto contrario: star sempre fuori di casa, vivere i giorni esternamente.

L’evento domestico non può che accadere a gennaio, a febbraio. Con buona pace dell’homo faber, il letargo del tempo è bellissimo. Il silenzio delle ambizioni. La sedazione dell’io. Ogni attesa indossava lo stesso abito: il golf coi buchi sul gomito, i calzoni sbiaditi; è il dress code per partecipare alla serata “uscire dal secolo”. Serve una persistenza nel non dare appuntamenti a sé stessi, prima che agli altri. L’unico obbligo è nutrirsi (e non solo del cibo), abbeverarsi (e non solo dell’acqua).

Non voler essere nessuno, e non esserlo.

Sotto casa, all’altezza dell’asfalto e delle zanelle, dei cerchioni, dei contatori del gas, delle radici dei pini, delle pigne scorticate, dei peli di gatto, delle monete perse, lì dove respirano i neonati nei passeggini, e dove si fermano a riposare le nonne quando si piegano, dormiva una creatura sfrattata e letargica: era il mio calendario, ma non era più mio, e io non ero più suo.

Presente e passato, che fare

Pochi giorni fa, in uno splendido articolo su Avvenire, Lisa Ginzburg ha diagnosticato uno dei sintomi che mi paiono più flagranti in Mio padre la rivoluzione. Ossia il desiderio di infrangere le barriere che separano il presente dal passato. Per parlare con ieri e ascoltarlo, oppure per inviargli e riceverne lettere:

«Tutto il libro è una riflessione sull’incomunicabilità tra le declinazioni del tempo: tra presente e passato, tra qualcuno che “prigioniero incapsulato nel presente” è invece al passato che si rivolge, con la passione di ricercatore che già pensa al futuro, che vorrebbe le cronologie stravolgerle così da sovvertire ogni distanza, fluire in un’osmosi che azzera i modi verbali rendendo la diacronia un valore epistemologico, modo nuovo per concepire la storia tanto quanto la letteratura. Il Tempo, è lui il protagonista di questo libro bello e importante…».

Foto minimum fax

Accosto a questa lettura il controcanto lucido e attento di Andrea Caterini, pubblicato sul Giornale. Per il critico romano, che conosce molto bene il mio lavoro e i miei due libri precedenti, MPLR chiude una trilogia per ragioni che hanno a che fare coi contenuti e con un rischio:

«L’esaurimento di quei motivi che, se ripetuti ancora una volta, potrebbero farci percepire un affievolimento dell’originalità, anche stilistica».

Sull’esaurimento di certi temi non posso che essere d’accordo, è un rischio. Eppure il rapporto col passato è monogamico, duraturo, a volte incurabile; per me è difficile smettere. Fossi guarito, la chiuderei qui, e darei retta al saggio consiglio di Andrea Caterini. Ma devo correre il rischio, perché mi resta una cosa da fare, solo una e poi basta. Una cosa che in realtà avevo cominciato ben prima di Mio padre la rivoluzione, e che non è affatto vicina al concludersi. Vi ho dedicato troppi anni di studio, ed economia personale, per abbandonare. Il lavoro è ancora lungo ma, insomma – sempre che io trovi un editore –, sarà tetralogia, temo. O meglio: chiuderò una trilogia per me gnoseologica che comprende Città distrutte, Mio padre la rivoluzione e Pietro Migliorisi.

Poi mi fermerò. Anche perché sono abbastanza stanco.

Città distrutte cinque anni dopo

A quasi cinque anni dalla sua uscita, Città distrutte suscita ancora qualche riflessione. A cominciare da quelle di Riccardo Castellana che, in un saggio notevole su La biofiction. Teoria, storia, problemi, pubblicato su «Allegoria», 70-71, osserva: «Per Città distrutte, a rigore, non dovrei parlare di biofiction, perché nessuno dei personaggi di queste sei biografie infedeli porta il nome di una persona reale: è assente cioè il nome proprio come “designatore rigido”, direbbero i filosofi del linguaggio, capace di assicurare il legame tra la persona reale e la sua “controparte” finzionale. Eppure, credo che in questo caso l’eccezione possa essere giustificata dal modo in cui Orecchio costruisce i propri personaggi, rendendone trasparente l’origine e dichiarando nel paratesto i modelli di partenza».

[…]

«E procedimenti analoghi sono messi in atto quando i biografati sono uomini e donne realmente esistiti, a volte famosi come Tarkovskij, ma in altri casi oscuri e dimenticati, “vite minuscole” (per citare Pierre Michon) come quelle del sindacalista Nicola Crapsi, del giornalista Alfredo Orecchio, o della scrittrice Oretta Bongarzoni. Il palinsesto biografico è sempre scrupolosamente ricavato da autentici documenti d’archivio, come lettere e pagine di diario, sempre citati tra virgolette, e la sua natura autenticamente documentaria è dichiarata nel peritesto. La finzionalità formale di queste brevi narrazioni eterodiegetiche non sta nel privilegio dell’onniscienza (cui Orecchio non ricorre mai), ma nelle crepe della simulazione del discorso fattuale: negli inserti autofinzionali con cui il narratore commenta il disfacimento fisico e morale dei suoi personaggi o ne prende congedo, o negli appelli ad auctoritates inesistenti, come il Patrice Vuillarde citato in apertura di libro, fantastico nume tutelare che ritorna anche in altri lavori dell’autore».

«Ircocervi solo apparentemente postmoderni, le creature di Orecchio sono rappresentative di un’epoca, hanno caratteri realistici, talvolta addirittura tipici. Grazie a questo singolarissimo espediente (e grazie anche alla non comune qualità stilistica della prosa di Orecchio, in assoluto una delle migliori di questi anni), il Novecento, dal fascismo al colonialismo, fino alla guerra fredda e alle dittature sudamericane ci si mostra per il tramite di vite individuali il cui fallimento esistenziale (la “distruzione” cui allude il titolo) è indice della tragicità e dell’orrore della storia».

Marco Mongelli, su Le parole e le cose, (Osservare e dire le vite altrui: breve introduzione alla biofiction), proseguendo ragionamenti analoghi sulla letteratura biofinzionale scrive:

«Il contesto contemporaneo della biografia di finzione è costellato da una miriade di forme diverse, tanto che sembra che ogni testo faccia categoria in proprio. Sarebbe inutile stilare qui una lista e per questo mi limiterò a indicare i testi più noti di una pratica autoriale che vede una prima emergenza all’inizio degli anni ‘80, in seguito al successo di massa di opere, spesso mediocri, a carattere biografico, in Italia ma non solo. Nel 1983 escono L’enciclopedia dei morti di Danilo Kiš e Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice; l’anno dopo le Vies minuscules di Pierre Michon. Negli ultimi dieci anni vanno segnalati almeno, in ambito francese, Ravel (2006), Courir (2008) e Des éclairs (2010) di Jean Echenoz e il celeberrimo Limonov (2011) di Emmanuel Carrère, e in ambito italiano, l’eccellente esordio di Davide Orecchio, Città Distrutte. Sei biografie infedeli (2012)».

Infine su Alias (e poi Le parole e le coseGiovanni Pellini cita Città distrutte nella sua recensione delle Vite minuscole di Pierre Michon.