Mica posso sparire perché non sono morto

Ho vent’anni; la storia digerisce Coloccini. Lo incontro nella mia città per desiderio di lavoro, correggo bozze da lui e sono il pasto che l’avventura non assaggia, non mastica, vomita semmai. La storia, la donna condanna alla castità quello che sta a sinistra del Muro, anche a destra del Muro, tra le sue macerie, felice, ferito, senza timone e senza storia – me. Per Coloccini (il tipografo, l’esule) è diverso: lui la racconta come l’ha vissuta ed è un portatore sano di tracce, ricordi, commiati, massacri, estirpazioni di esseri umani, sradicamenti di esseri umani, potature di speranze, avvelenamenti di progetti e contamina col morbo dell’indignazione, trasmette l’infezione della memoria mentre a me passa atti di convegni, seminari medici, conferenze sindacali dove apporre simboli in verde, rosso e blu. Testi incomprensibili, più estranei di una lingua d’altrove ma Coloccini paga puntuale ed è tipografo da sempre, racconta, e in Argentina stampava El Combatiente, sostiene, foglio clandestino e rivoluzionario.

Cosa pesa di più, ieri o adesso? Sempre il secondo, dico io che testimonio Coloccini nella periferia di Roma dove, né vittorioso né desaparecido, nel limbo dell’esilio, senza omaggi né cronache, senza ricevere lacrime da nessuno, la sua clandestinità persiste come plastica di un rifiuto e lui non la può riciclare né decomporre, e la mostra. Anch’io credo che sia tipografo da sempre. L’inchiostro nero per la stampa lo custodisce nel serbatoio degli occhi.

Al vergine di eventi che si fa abbordare e ascolta, il reduce di eventi lascia intendere d’essersi arrampicato fuori dalla nota a piè di pagina «perché eravamo in molti in una stanza piccola, senza finestre e non respiravo più» tra i caratteri marginali di quella glossa e la guerra sporca l’ha risparmiato ma con crudeltà gli ha imposto l’oblio dell’ignoto non milite, solo fuggitivo, dimenticabile. «La guerra sporca si sbaglia, però» dimostra Arturo coi suoi libri, le riviste e gli appelli. «Mica posso sparire perché non sono morto. Mica è una colpa salvarsi» e in quanto adopera vedo l’assalto corsaro alla provvisorietà, il corpo a corpo del residuo che getta la macchia colorata sulla strada, nella stanza, nella vita, nel discorso, nella telefonata, nella lettera per catturare attenzione. Così la sigaretta che fuma Coloccini è una ipersigaretta, il fumo che espira è un signor fumo irreparabile e potente, la giacca brutta che indossa è una supergiaccabrutta e qualsiasi ricordo di Arturo condensa aneddoti con piglio multivitaminico.

Del gesto, dell’indumento, del racconto vale la tinta che ferma il testimone di passaggio nel museo dei fatti trascorsi, e lo convince a stare attento. Io sto attento a Coloccini, come potrei evitarlo? La sua Argentina è il fascino, la tristezza e una benda da svolgere per la scoperta di ferite succulente patite da Coloccini-il-Cristo sgorgasangue e spremimemorie, nutritore e beveraggio del pivello un po’ distratto, un po’ infoiato di racconti that is me.

Coloccini soffre il dolore dei coetanei, compatrioti, esuli quanto lui, semimaciullati, semifracassati, titolari di decenni nello sperpero (i miei vent’anni, che fine hanno fatto? i miei trent’anni, stanno lì nel moccio di Videla, nel suo baffo-più-pomata? è vero quel che vedo?), e dovrei rispettarlo, non trattarlo come un cantastorie o un cinema vivente, non pretendere d’essere intrattenuto da lui e adesso ecco la strada, la periferia, via Togliatti, la luce elettrica anche alla mezza, corsie, lamiere, le bozze, l’odore della macchina offset, i computer Apple, i grandi monitor, le stampanti, penne, matite, ancora corsie, San Lorenzo, un cancello, un cortile, l’inverno, la pizza nel cartone, la birra, il soggiorno il divano e il tavolo.

Nella nostra città rigurgitiamo l’inverno, la brina sul parabrezza, le domeniche in casa, il silenzio, il filo spinato di gennaio e Arturo conquista una donna, poi la perde, ne conquista una nuova, perde anche lei, ricorda una moglie antica in Argentina, un figlio antico in Argentina mentre io inseguo fidanzate che non vogliono fidanzarsi, frequento qualunquisti, faccio scena muta coi fascisti, indosso maschere, dilapido i giorni ma non smetto di correggere bozze, ascoltare storie, porre domande, ricevere risposte. Coloccini piange nel mio bagno dove orina a vanvera con l’aiuto del Malbec e secerne i macigni trascorsi e nel liquido comune di lacrime, vino e pipì trova l’antidoto al coagulo del passato. Coloccini piange se vede il film che lo riguarda, se legge il libro che lo riguarda e piange quando rievoca, narra, menziona, allude, incontra, ospita, insegna, educe. Coloccini, ti prego, basta piangere! Se non singhiozza minaccia che si caccerà sulla strada a cercare vecchi compagni, testimoni di fughe, torture, uniformi, macellai, raccoglierà accuse in forma di ricordo, vendette con l’aspetto di nome, cognome, nato a, seviziato a, fuggito da, disponibile a comparire dinanzi al giudice che sarà e «prima o poi lo faccio» promette e io l’incoraggio: «Fallo. Devi farlo assolutamente», e «Certo che lo faccio» ripete Coloccini «prima o poi».

Il timbro, il visto, il certificato, la dispensa, l’atto notarile, la sofferenza verbalizzata, notificata a Coloccini per bocca di Coloccini, cucita dopo prove sartoriali, intessuta nella canapa, la seta, la cartilagine, l’ossobuco, le ciglia, le unghie, il sebo, ma di chi o cosa hai bisogno davvero, Arturo? Di un amico? Di uno specchio? Di una caverna che ti aumenti la voce? Di un correttore di bozze?

[…]

«Hai vissuto in un armadio?» «Ci ho dormito, bevuto e mangiato. Uscivo solo per andare al bagno. Mi cercavano. Stavo nascosto.» «Cos’era successo?» «Avevo aiutato un’amica a fuggire in Italia. Il prossimo aereo era il mio.» «Chi ti proteggeva?» «Un sindacalista del patronato. Un italiano. E un console. Un altro italiano.» Il sindacalista recupera fuggiaschi, il console timbra passaporti falsi, Coloccini aspetta nell’armadio, Un giovane console, bello, alto, con gli occhi azzurri, giusto, e Coloccini esce dall’armadio, riempie il sacco, entra nel cofano dell’automobile, esce dal cofano, sale sull’aereo, dichiara d’essere un altro, sorride come un turista, un emigrato, un uomo d’affari, vola e atterra nella città dove adesso attraversiamo Villa Mercede e possediamo i documenti in regola della democrazia, abitiamo la democrazia asmatica, il consesso dei produttori dello zero per cento, la capitale della penisola che in realtà è un’isola, anzi uno scafo che affonda ed è terminato il film di Ken Loach, l’arena si svuota, i giovani rinculano verso via dei Volsci, gli anziani verso casa o sulle panchine quando chiedo a Coloccini: «Hai altre storie?», e lui sorride come quello che non potrà mai esaurire il moto perpetuo delle storie e dice: «Ne ho ancora una. Ti va di ascoltare?».

(da Stati di grazia, il Saggiatore 2014, pp. 247 sgg.)

Argentina 1976. Storia del Golpe

Da Giovanni Miglioli (a cura di), Desaparecidos. La sentenza italiana contro i militari argentini, manifestolibri, Roma 2001, pp. 149-153.

Tra il 1930 ed il 1983 si ebbe in media un colpo di stato ogni dieci anni

«Negli anni tra il 1976 ed il 1983, ad opera di una dittatura militare, si consumò la più brutale tragedia della storia argentina, concretatasi in un vero e proprio genocidio. Tra il 1930 ed il 1983, in Argentina, si avvicendarono governi militari in numero superiore a quelli scelti con il voto popolare e si ebbe in media un colpo di stato ogni dieci anni. Il primo avvenne nel 1930 allorché, ad opera di militari che professavano una ideologia assimilabile a quella imperante nello stesso periodo in Germania e in Italia, venne deposto il presidente Hipólito Yrigoyen, appartenente al partito radicale e rappresentante dei ceti medi immigrati dall’Europa. 

Nel 1943 prese il potere un gruppo di militari che erano sulle stesse posizioni dei precedenti, in quanto simpatizzanti con le potenze dell’Asse. Di questo gruppo faceva parte l’allora colonnello Juan Domingo Perón, che assunse la carica di segretario al lavoro e alla previdenza sociale e successivamente di ministro della Difesa e di vicepresidente. Fin dal primo incarico Perón avviò una politica che appariva rispettosa dei diritti dei lavoratori e ispirata alla dottrina sociale della Chiesa cattolica. Nel 1945 Perón venne arrestato dai suoi stessi compagni e poi liberato a seguito di sollevazione popolare spontanea; l’anno successivo venne nominato presidente con libere elezioni.

Nel settembre del 1955 una Giunta militare rovesciò Perón

Nel settembre del 1955 una Giunta militare rovesciò Perón, chiudendo il Parlamento, sciogliendo la Corte suprema di giustizia e imponendo lo stato d’assedio. Per ordine del presidente militare Pedro Aramburu, vennero fucilati diversi esponenti peronisti. Perón andò in esilio all’estero, continuando però ad organizzare un movimento di opposizione e di resistenza. Nel 1958 venne eletto presidente Arturo Frondizi, il quale ottenne i voti dei peronisti grazie alla promessa di ridare legalità al loro movimento, che era stato messo fuori legge. Il mantenimento di tale promessa scatenò però la reazione dei militari e fu causa di ripetuti scontri tra opposte fazioni. 

Nel 1966 si ebbe un nuovo colpo di stato e una Giunta militare depose il radicale Arturo Illia (che era stato eletto nel giugno del 1963), insediando alla presidenza il capo dell’Esercito Juan Carlos Onganía, sciogliendo il Parlamento e la Corte suprema di giustizia e proibendo ogni attività politica e sindacale. Onganía allacciò stretti rapporti con le alte autorità ecclesiastiche e all’organizzazione clericale Opus Dei venne riservato un importante ruolo governativo. Nella Chiesa cattolica si ebbero però dissensi alla base, in quanto molti vescovi e sacerdoti si schierarono dalla parte dei ceti più poveri, avviando il dialogo con i marxisti. L’oppressione della dittatura militare causò la nascita di organizzazioni di resistenza, come la Gioventù peronista e i Montoneros (provenienti dall’Azione cattolica), e di guerriglia, come l’Esercito rivoluzionario del popolo (Erp) e le Forze armate rivoluzionarie (Far).

Il peronismo aveva una doppia faccia: una testa fascista e un corpo operaio di sinistra

Nel 1970 il posto di Onganía venne preso dal generale Roberto Levingston, al quale l’anno successivo subentrò, dopo un ennesimo colpo di stato, il generale Alejandro Lanusse. Quest’ultimo, vista la difficoltà di sconfiggere la guerriglia con le armi, cercò di isolarla politicamente e indisse le elezioni, ammettendovi anche esponenti peronisti; per evitare una sicura vittoria di Perón, stabilì però che potevano candidarsi solo coloro che già risiedevano nel Paese prima dell’agosto del 1972. Dall’esilio di Madrid Perón prometteva ai suoi sostenitori una patria socialista e la gran parte del popolo argentino, soprattutto quello giovanile ed operaio (che subiva l’influenza dei messaggi sessantotteschi provenienti dall’Europa), credette in questa promessa e gli diede il suo consenso, illudendosi di ottenere finalmente conquiste sociali. 

Nel novembre del 1972 Perón tornò in Argentina, acclamato da migliaia di persone e, dopo un breve periodo, andò di nuovo a Madrid, per preparare da fuori la riconquista del potere; non potendo presentarsi alle elezioni, candidò al suo posto, come “testa di legno”, Hector J. Cámpora, il quale venne eletto presidente l’11 marzo 1973 e, come primo provvedimento, concesse la libertà a tutti i guerriglieri detenuti. Il definitivo ritorno di Perón fece risaltare in tutta la sua drammatica evidenza l’equivoco peronista. Il suo movimento era diviso in due schieramenti, che vedevano da una parte l’ala destra (conservatrice e contraria alle riforme sociali), composta anche da sindacalisti filogovernativi e corrotti, e dall’altra l’ala sinistra, comprendente tra gli altri i movimenti giovanili e studenteschi e i Montoneros. Il peronismo aveva quindi una doppia faccia ed era paragonabile ad una figura mitologica composta da due diversi animali, una testa fascista e un corpo operaio di sinistra.

Entrò in azione la Triplice A

Il 20 giugno del 1973 il ministro e segretario privato di Cámpora, José López Rega (ex poliziotto e astrologo esoterico, considerato una specie di stregone) fece collocare un contingente militare sul palco dove Perón doveva tenere il suo primo discorso, nella piazza antistante l’aeroporto “Ezeiza” di Buenos Aires, nella quale affluì più di un milione di persone. Quando si avvicinarono le colonne della Gioventù peronista, dal palco venne aperto il fuoco e la manifestazione si sciolse con un tragico bilancio di diversi morti e numerosi feriti. Perón si schierò apertamente contro l’ala sinistra del suo movimento e costrinse Cámpora alle dimissioni. La presidenza ad interim venne assunta da Raúl Lastiri, genero di López Rega, che indisse nuove elezioni.

Il 23 settembre 1973 Perón venne eletto presidente e la sua nuova moglie Isabelita (una ex ballerina) prese la carica di vice-presidente. Durante il comizio dell’1 maggio 1974, Perón criticò aspramente i Montoneros, definendoli “imbecilli e imberbi’’ e inducendoli ad abbandonare in massa la Plaza de Mayo. Questo episodio segnò una definitiva frattura all’interno del movimento peronista e determinò la radicalizzazione dello scontro e l’intensificarsi delle azioni di guerriglia e di terrorismo. Perón morì l’1 luglio 1974 e al suo posto venne formalmente insediata Isabelita Perón; in realtà le redini del overno vennero prese da López Rega, il quale accentuò il carattere autoritario del regime. Da una parte entrò in azione la Triplice A (Alleanza Anticomunista Argentina, creata da López Rega sul modello degli squadroni della morte) che sequestrava e uccideva intellettuali e politici sospettati di essere legati alla opposizione armata; dall’altra vi erano i Montoneros, che tornarono alla clandestinità, perdendo il consenso popolare, e l’Erp, che aprì un fronte di guerriglia rurale nella provincia di Tucumán. Isabelita Perón firmò un decreto ordinando ai militari l’annientamento dei Montoneros e dei partigiani dell’Erp. Da parte dell’Esercito vi fu una violenta repressione, in conseguenza della quale i Montoneros subirono gravi perdite e l’organizzazione dell’Erp venne decimata in seguito a un disperato e fallito attacco ad una caserma di Buenos Aires. Il Paese a questo punto entrò nel caos, in quanto il Governo di Isabelita Perón si dimostrò fragile e incapace di controllare l’economia e l’ordine pubblico.

Videla e gli italiani. Intervista a Giovanni Miglioli

Il colpo di stato del 24 marzo 1976 venne programmato con largo anticipo

Il 24 marzo 1976 i militari, con il consenso o quanto meno con l’indifferenza della popolazione argentina, promossero l’ennesimo colpo di stato e presero il potere. Isabelita venne imprigionata e ancora una volta vennero sciolti il Parlamento e la Corte suprema di giustizia. Della Giunta militare facevano parte i comandanti delle tre Forze Armate; quello dell’Esercito, Jorge Videla, venne nominato presidente. Il colpo di stato del 24 marzo 1976 venne programmato con largo anticipo e venne preceduto da una accuratissima operazione di disinformazione, intesa a diffondere nell’opinione pubblica (sia argentina che internazionale) la convinzione dell’assoluta necessità di ristabilire l’ordine e di sconfiggere il terrorismo.

Si volle soprattutto evitare di ripetere gli errori commessi da Pinochet in Cile, dove i militari nella loro arroganza fecero spettacolo della violenza e della ferocia con cui si reprimeva il popolo. Non ci furono a Buenos Aires gli stadi pieni di detenuti, non ci fu il bombardamento del palazzo presidenziale, così tragicamente evidenziato dalla morte del presidente eletto dal popolo, come a Santiago; non ci furono carri armati per le strade; la città sembrava normale, le operazioni si facevano con camion e macchine senza targa, di notte, con uomini in borghese. Nacque così l’idea strategicamente brillante dei desaparecidos, cioè quella di far scomparire nel nulla le persone prelevate; il che da una parte paralizzava la famiglia, che continuava a sperare che la persona ritornasse e non voleva renderne piu difficile la situazione, ma dall’altra toglieva ogni evidenza iconografica all’informazione, ai ‘media’; la mancanza di immagini metteva in dubbio l’esistenza stessa della repressione.

Furono organizzati campi di concentramento

Il 24 marzo 1976 il potere passò ai militari senza nessun incidente. Vennero sospese le attività dei partiti politici e dei sindacati, ma si fece sapere che queste erano misure transitorie e che la Giunta militare aveva come obiettivo il rafforzamento della struttura democratica del Paese. Gli argentini avrebbero dovuto abituarsi a questo paradosso. Debole, quasi formale, comunque attendista, fu la reazione internazionale. Videla era fautore della linea ’’moderata’’, che voleva salvare la patria dal pericolo marxista e ristabilire l’ordine, senza usare i metodi cileni ostentatamente e pubblicamente violenti, ma agendo segretamente e cercando di guadagnare un certo consenso popolare. La Triplice A fu attiva fino al giorno del colpo di stato, dopodiché non apparve più pubblicamente e i suoi membri entrarono a far parte dei gruppi clandestini della dittatura.

All’interno delle singole unità delle Forze Armate e della sicurezza vennero organizzati campi di concentramento, dove venivano portate le persone sequestrate, sottoposte a torture e nella maggior parte dei casi eliminate. La conduzione delle operazioni, nell’ambito della cosiddetta “guerra sporca” (guerra sucia), venne affidata all’Esercito e venne anche stabilita la ripartizione delle giurisdizioni tra le diverse Forze; le vecchie gelosie esistenti tra di esse causarono però vari sconfinamenti, soprattutto da parte della Marina, al cui comando vi era l’ammiraglio Emilio Massera, che aveva ambizioni politiche e aspirava ad ereditare la “leadership” del peronismo.

Niente arresti di massa, niente carceri, niente fucilazioni né assassini clamorosi

La Giunta militare volle eliminare tutti i suoi nemici senza che si diffondesse la coscienza di tale annientamento. Fu inventata una strategia: niente arresti di massa, niente carceri, niente fucilazioni né assassini clamorosi come quelli della Triplice A. Gli oppositori sarebbero stati sequestrati da gruppi non identificati, caricati su vetture senza targa e fatti scomparire. Ebbe così inizio, lentamente, il più grande genocidio della storia argentina. I sequestri furono sempre più frequenti e si ripetevano sempre secondo le stesse modalità. Non erano gruppi incontrollati dell’estrema destra, come voleva far credere la Giunta, ma vi era una struttura centrale che li coordinava.

Le operazioni venivano compiute nei posti di lavoro delle persone segnalate o per strada in pieno giorno, mediante un piano che richiedeva la “zona franca” da parte delle forze di Polizia. Le loro volanti che, specialmente dopo il colpo di stato erano presenti un po’ dappertutto, stranamente non videro mai niente, anche se i sequestri si consumavano a poca distanza dal commissariato. Ma la stragrande maggioranza dei sequestri avveniva di notte in casa delle vittime. Il commando occupava la zona circostante ed entrava nelle case facendo uso della forza. Terrorizzava e imbavagliava perfino i bambini obbligandoli a essere presenti. La vittima veniva catturata, brutalmente colpita e incappucciata, poi trascinata fino alle macchine che aspettavano mentre il resto del gruppo rubava tutto quello che poteva (in alcuni casi arrivavano perfino dei camion) o distruggeva quello che non poteva portarsi via, picchiando e minacciando il resto della famiglia. Anche nei casi in cui i vicini o i parenti riuscivano a dare l’allarme, la Polizia non arrivava mai. Si incominciò così a capire l’inutilità di sporgere denuncia.

Dal momento in cui avveniva il sequestro la persona restava totalmente isolata dal mondo esterno

La maggioranza della popolazione era terrorizzata e non era nemmeno facile trovare testimoni. Nessuno aveva visto nulla. In questo modo migliaia e migliaia di persone diedero forma a una fantasmatica categoria, quella dei desaparecidos. Nessun interrogativo trovò una risposta: la Polizia non aveva visto nulla, il governo faceva finta di non capire di che cosa si stesse parlando, la Chiesa non si pronunciava, gli elenchi delle carceri non registravano le loro detenzioni, i magistrati non intervenivano. Intorno ai desaparecidos si era alzato un muro di silenzio. Con i diritti avevano perso anche l’esistenza civile. Dal momento in cui avveniva il sequestro la persona restava totalmente isolata dal mondo esterno. Depositata in uno dei numerosi campi di concentramento o in luoghi intermedi di detenzione dove veniva sottoposta a torture infernali, e lasciata all’oscuro della propria sorte. Alcuni venivano perfino abbandonati dalla famiglia, che sotto la pressione di continue minacce, ricatti e richieste di denaro, viveva nel terrore di rappresaglie e qualche volta fiduciosa che il silenzio, richiesto dai militari, fosse il miglior modo per ottenere qualche informazione.

Il prigioniero poteva morire sotto tortura, essere fucilato o gettato in mezzo all’oceano

Nei centri clandestini di detenzione veniva sistematicamente applicata la tortura. Le “sessioni” erano sorvegliate da un medico che controllava i limiti di tolleranza della vittima e determinava il proseguimento o la momentanea sospensione della tortura se la vittima non era in grado di reggerla. La valutazione preventiva per capire se la persona da sequestrare o sequestrata avesse qualcosa da dire d’interessante per i sequestratori era pressoché inesistente. Questo metodo indiscriminato portò al sequestro e alla tortura degli oppositori ma anche dei loro familiari, amici, colleghi di lavoro e di un numero rilevante di persone senza alcun tipo di pratica politica o sindacale. Bastava molto poco per essere considerato sospetto. Il prigioniero poteva morire sotto tortura, essere fucilato o gettato in mezzo all’oceano. Il suo cadavere sarebbe stato forse sepolto nelle tombe comuni di cimiteri clandestini, cremato o buttato in fondo al mare con un blocco di cemento ai piedi. Anche se la dittatura militare aveva modificato il codice penale introducendo la pena capitale, ufficialmente non ci fu nessuna condanna a morte. Nonostante le migliaia di vittime, non fu eseguita in nessun caso una sentenza giudiziaria né civile né militare. Non fu quindi rispettata nemmeno questa precaria legalità che lo stesso regime aveva stabilito. Passavano così i giorni, i mesi gli anni, senza avere mai nessuna notizia, trovando sempre risposte negative. Nessuno pareva sapere niente di loro. Erano scomparsi”.

La sconfitta nelle isole Malvine causò la fine della dittatura militare

Nel 1981 vi fu un rapido avvicendamento di presidenti militari: a marzo il generale Roberto Viola subentrò a Videla e a dicembre il generale Leopoldo Galtieri prese il posto di Viola. Nel 1982 la Giunta militare occupò le isole Malvine (Falkland), Georgia e Sandwich del Sud, che erano possedimenti inglesi sin dai primi decenni del secolo precedente. Per rientrarne in possesso, il Governo inglese di Margaret Thatcher inviò una poderosa flotta, dotata anche di sommergibili atomici; non potendo reggere il confronto, la flotta argentina venne subito ritirata e le truppe si arresero dopo pochi giorni di battaglia. Questo insuccesso causò la fine della dittatura militare; Galtieri venne deposto e si decise di indire le elezioni. Nell’ottobre del 1983 anno Raul Alfonsín, il capo del partito radicale, vinse le elezioni con il 52% dei voti».

Immagine in evidenza: Argentina, 1976, Videla è il nuovo presidente. Al suo fianco Massera e Agosti. (foto di AP Photo/Eduardo Di Baia, fonte albaciudad.org)

Se la storia è, come sembra, un genere letterario…

«Si la historia es – como parece – otro de los géneros literarios, ¿por qué privarla de la imaginación, el desatino, la indelicadeza, la exageración y la derrota que son la materia prima sin la qual no se concibe la literatura?».

«¿Alguien puede embalsamar una vida? ¿No es ya suficiente castigo ponerla bajo el sol y en esa luz terrible comenzar a contarla?».

Tomás Eloy Martínez, Santa Evita

Qualche ragionamento su «Purgatorio» di Tomás Eloy Martínez

Purgatorio

Su alfabeta2 del 7 giugno 2015 ragiono su Purgatorio (Edizioni Sur), l’ultimo romanzo dello scrittore argentino Tomás Eloy Martínez.

Quando un regime inventa storie, alla letteratura cosa resta da fare, assecondarle o contestarle? Il regime è uno scrittore dozzinale, crea trame modestamente fittizie. Simile a un abito lacerato da buchi, il racconto maldestro che il regime cuce non nasconde appieno la realtà che pretende di mascherare; dagli squarci la verità affiora, e chi ha coraggio la vede. Dunque bisogna credere o dubitare? Sottomettersi alle menzogne ansiolitiche (oppure ansiogene, se occorre che siano) o cercare il vero, sebbene feroce, e quindi resistere? E come si deve ricordare (o dimenticare), e raccontare, un’epoca atroce?
L’ultimo libro di Tomás Eloy Martínez (1934-2010, già autore del capolavoro Santa Evita, tra i più importanti scrittori argentini degli ultimi decenni) espone un problema non solo politico ma letterario, e ha il grande pregio di non risolverlo.

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