Mica posso sparire perché non sono morto

Ho vent’anni; la storia digerisce Coloccini. Lo incontro nella mia città per desiderio di lavoro, correggo bozze da lui e sono il pasto che l’avventura non assaggia, non mastica, vomita semmai. La storia, la donna condanna alla castità quello che sta a sinistra del Muro, anche a destra del Muro, tra le sue macerie, felice, ferito, senza timone e senza storia – me. Per Coloccini (il tipografo, l’esule) è diverso: lui la racconta come l’ha vissuta ed è un portatore sano di tracce, ricordi, commiati, massacri, estirpazioni di esseri umani, sradicamenti di esseri umani, potature di speranze, avvelenamenti di progetti e contamina col morbo dell’indignazione, trasmette l’infezione della memoria mentre a me passa atti di convegni, seminari medici, conferenze sindacali dove apporre simboli in verde, rosso e blu. Testi incomprensibili, più estranei di una lingua d’altrove ma Coloccini paga puntuale ed è tipografo da sempre, racconta, e in Argentina stampava El Combatiente, sostiene, foglio clandestino e rivoluzionario.

Cosa pesa di più, ieri o adesso? Sempre il secondo, dico io che testimonio Coloccini nella periferia di Roma dove, né vittorioso né desaparecido, nel limbo dell’esilio, senza omaggi né cronache, senza ricevere lacrime da nessuno, la sua clandestinità persiste come plastica di un rifiuto e lui non la può riciclare né decomporre, e la mostra. Anch’io credo che sia tipografo da sempre. L’inchiostro nero per la stampa lo custodisce nel serbatoio degli occhi.

Al vergine di eventi che si fa abbordare e ascolta, il reduce di eventi lascia intendere d’essersi arrampicato fuori dalla nota a piè di pagina «perché eravamo in molti in una stanza piccola, senza finestre e non respiravo più» tra i caratteri marginali di quella glossa e la guerra sporca l’ha risparmiato ma con crudeltà gli ha imposto l’oblio dell’ignoto non milite, solo fuggitivo, dimenticabile. «La guerra sporca si sbaglia, però» dimostra Arturo coi suoi libri, le riviste e gli appelli. «Mica posso sparire perché non sono morto. Mica è una colpa salvarsi» e in quanto adopera vedo l’assalto corsaro alla provvisorietà, il corpo a corpo del residuo che getta la macchia colorata sulla strada, nella stanza, nella vita, nel discorso, nella telefonata, nella lettera per catturare attenzione. Così la sigaretta che fuma Coloccini è una ipersigaretta, il fumo che espira è un signor fumo irreparabile e potente, la giacca brutta che indossa è una supergiaccabrutta e qualsiasi ricordo di Arturo condensa aneddoti con piglio multivitaminico.

Del gesto, dell’indumento, del racconto vale la tinta che ferma il testimone di passaggio nel museo dei fatti trascorsi, e lo convince a stare attento. Io sto attento a Coloccini, come potrei evitarlo? La sua Argentina è il fascino, la tristezza e una benda da svolgere per la scoperta di ferite succulente patite da Coloccini-il-Cristo sgorgasangue e spremimemorie, nutritore e beveraggio del pivello un po’ distratto, un po’ infoiato di racconti that is me.

Coloccini soffre il dolore dei coetanei, compatrioti, esuli quanto lui, semimaciullati, semifracassati, titolari di decenni nello sperpero (i miei vent’anni, che fine hanno fatto? i miei trent’anni, stanno lì nel moccio di Videla, nel suo baffo-più-pomata? è vero quel che vedo?), e dovrei rispettarlo, non trattarlo come un cantastorie o un cinema vivente, non pretendere d’essere intrattenuto da lui e adesso ecco la strada, la periferia, via Togliatti, la luce elettrica anche alla mezza, corsie, lamiere, le bozze, l’odore della macchina offset, i computer Apple, i grandi monitor, le stampanti, penne, matite, ancora corsie, San Lorenzo, un cancello, un cortile, l’inverno, la pizza nel cartone, la birra, il soggiorno il divano e il tavolo.

Nella nostra città rigurgitiamo l’inverno, la brina sul parabrezza, le domeniche in casa, il silenzio, il filo spinato di gennaio e Arturo conquista una donna, poi la perde, ne conquista una nuova, perde anche lei, ricorda una moglie antica in Argentina, un figlio antico in Argentina mentre io inseguo fidanzate che non vogliono fidanzarsi, frequento qualunquisti, faccio scena muta coi fascisti, indosso maschere, dilapido i giorni ma non smetto di correggere bozze, ascoltare storie, porre domande, ricevere risposte. Coloccini piange nel mio bagno dove orina a vanvera con l’aiuto del Malbec e secerne i macigni trascorsi e nel liquido comune di lacrime, vino e pipì trova l’antidoto al coagulo del passato. Coloccini piange se vede il film che lo riguarda, se legge il libro che lo riguarda e piange quando rievoca, narra, menziona, allude, incontra, ospita, insegna, educe. Coloccini, ti prego, basta piangere! Se non singhiozza minaccia che si caccerà sulla strada a cercare vecchi compagni, testimoni di fughe, torture, uniformi, macellai, raccoglierà accuse in forma di ricordo, vendette con l’aspetto di nome, cognome, nato a, seviziato a, fuggito da, disponibile a comparire dinanzi al giudice che sarà e «prima o poi lo faccio» promette e io l’incoraggio: «Fallo. Devi farlo assolutamente», e «Certo che lo faccio» ripete Coloccini «prima o poi».

Il timbro, il visto, il certificato, la dispensa, l’atto notarile, la sofferenza verbalizzata, notificata a Coloccini per bocca di Coloccini, cucita dopo prove sartoriali, intessuta nella canapa, la seta, la cartilagine, l’ossobuco, le ciglia, le unghie, il sebo, ma di chi o cosa hai bisogno davvero, Arturo? Di un amico? Di uno specchio? Di una caverna che ti aumenti la voce? Di un correttore di bozze?

[…]

«Hai vissuto in un armadio?» «Ci ho dormito, bevuto e mangiato. Uscivo solo per andare al bagno. Mi cercavano. Stavo nascosto.» «Cos’era successo?» «Avevo aiutato un’amica a fuggire in Italia. Il prossimo aereo era il mio.» «Chi ti proteggeva?» «Un sindacalista del patronato. Un italiano. E un console. Un altro italiano.» Il sindacalista recupera fuggiaschi, il console timbra passaporti falsi, Coloccini aspetta nell’armadio, Un giovane console, bello, alto, con gli occhi azzurri, giusto, e Coloccini esce dall’armadio, riempie il sacco, entra nel cofano dell’automobile, esce dal cofano, sale sull’aereo, dichiara d’essere un altro, sorride come un turista, un emigrato, un uomo d’affari, vola e atterra nella città dove adesso attraversiamo Villa Mercede e possediamo i documenti in regola della democrazia, abitiamo la democrazia asmatica, il consesso dei produttori dello zero per cento, la capitale della penisola che in realtà è un’isola, anzi uno scafo che affonda ed è terminato il film di Ken Loach, l’arena si svuota, i giovani rinculano verso via dei Volsci, gli anziani verso casa o sulle panchine quando chiedo a Coloccini: «Hai altre storie?», e lui sorride come quello che non potrà mai esaurire il moto perpetuo delle storie e dice: «Ne ho ancora una. Ti va di ascoltare?».

(da Stati di grazia, il Saggiatore 2014, pp. 247 sgg.)

Stati di grazia, una bella recensione di Marco Mongelli su Allegoria

allegoria

La rivista Allegoria  pubblica una bella, lucida, esattissima (mi sembra) e inattesa (visto che è passato già molto tempo dall’uscita del romanzo) recensione di Stati di grazia, firmata da Marco Mongelli:

«Stati di grazia, opera seconda di Davide Orecchio, reca sulla copertina la dicitura “romanzo”, sicuramente in virtù del carattere onnivoro della categoria ma forse anche perché un’espressione più precisa per descrivere un libro del genere ancora non c’è. Quest’opera, infatti, fra le più importanti dell’ultimo decennio italiano, presenta una struttura narrativa complessa e una mescolanza di regimi discorsivi differenti. Se il precedente Città distrutte. Sei biografie infedeli (2012) mimava la biografia, Stati di grazia vuole essere una ricostruzione memoriale di un periodo storico, la dittatura in Argentina negli anni ’70, e di un fenomeno, le migrazioni dall’Italia prima e verso l’Italia poi di esuli e fuggiaschi. Ricostruzione compiuta attraverso l’invenzione di storie verosimili e l’utilizzo di una lingua e di uno stile iper-letterari».

Prosegue qui

Una storia difficile

Su Il lavoro culturale è uscito il testo del mio intervento al CaLibro Festival 2015, accompagnato e commentato dai disegni di Silvia Checconi. Ho provato a raccontare le ragioni che mi hanno spinto a scrivere Stati di grazia; o parte di queste ragioni. Ho descritto una fotografia, una ragazza, un viaggio, un paese del nord, una fabbrica, un documentario, il mio rapporto con la storia, e altri due o tre temi. Ho provato, ho provato, ho provato…

Argentina. Canne da zucchero
Argentina. Canne da zucchero