Ma alla fine quanto è grande quel cranio?

San Pietroburgo – Mosca

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«Le città mutano nome,
E i testimoni degli eventi non ci sono più,
Nessuno con cui piangere, nessuno con cui si possa ricordare…»
Anna Achmatova

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Non ho saputo resistere

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Pensavo fosse una signora irsuta in immobile attesa del kvas o del tè. Dopo 20 min ho capito che era il manichino di Puškin.

San Pietroburgo

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Selfie stupidino con la scrivania di Dostoevskij alle spalle

Casa Museo di Dostoevskij

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Dai luoghi di Delitto e castigo

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«Notte, strada, fanale, farmacia,
Una luce assurda ed appannata.
Pur se ancora vivrai venticinqu’anni –
Sempre sarà così. Non c’è rimedio.
Tu morirai – comincerai di nuovo,
E tutto riaccadrà come una volta:
Gelido incresparsi del canale,
Notte, farmacia, strada, fanale.»
Aleksandr Blok

San Pietroburgo

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Collage moscovita

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Qui perplesso sul tragitto verso la mummia di Lenin. Dopo la schiera di tombe dei bolscevichi. Avendo visto fiori inauditi sulla cripta di Stalin. All’ingresso del mausoleo le guardie ci scortano nella discesa. Dove è il corpo imbalsamato è come sottoterra. Dai gradini si declina verso la dimora della conservazione. Transitando si deve aver freddo, si deve perdere lentamente la visibilità, dobbiamo inciampare. È così che si arriva nel posto che non è ancora il nostro. Nella camera del freddo e del buio. Qui l’obito pretende il silenzio. Un catafalco geometrico poco più che invisibile protegge il corpicino vestito di nero. La salma, però, sta tutta in una luce forte. La vediamo benissimo, seppure distanti e veloci. Non ti puoi soffermare in questo spazio che usurpi, né aldilà né aldiqua. L’inframondo di Lenin. I turisti lo circumnavigano come fosse un Pakal o un Tutankamon, faraone di un regno perduto, imperatore di un popolo antico. Cosa gli chiediamo mentre lo guardiamo? E lui che risponde? Cosa può dire la mummia di Lenin a un turista del XXI secolo?

Lenin è minuscolo in questa sua luce. Le unghie mi sembrano innaturali, del colore dello zucchero di canna, brunite e torbide. Sul viso e le tempie la pelle appare liscia, ma si tratta di candore stralunato per lo sguardo lontano; in realtà – sospetto – è una cartapecora pronta a disfarsi, espone le rughe di un sisma interiore. È un panno costituito di tempo e acidi chimici; non resta più nulla dell’epidermide.

Il cranio mi pare di grandezza normale. Lo vedo così: composto, proporzionato e bello, poco sopra le palpebre chiuse con dolcezza. Davvero “composero” Lenin, davvero ne furono artefici i più delicati di quell’era cruenta. Ma io quella testa l’aspettavo ciclopica, come ritratta da Petrov-Vodkin nel quadro che allego, perché il capo sovrumano ed enorme di Lenin era di una “creatura dall’intelligenza superiore” – dice la leggenda bolscevica –, e superdotata pure morfologicamente nella teca cerebrale, per vocazione alla guida del popolo. Ma qui non trovo tracce del macrocefalo. Del resto già i patologi che esaminarono il cervello del morto smentirono la diceria: era materia grigia come tutte le altre, quella di un uomo, non di un superuomo, non di un gigante e neppure di un dio.

Un uomo. Lenin era solo un uomo. Tanto che si consumò della storia. La sua malattia fu la storia. Tanto che morì del governo. Morì anche dell’odio, il suo, per i “nemici del popolo”. A furia di ordinare che li uccidessero tutti, Lenin morì. Però gli tolsero l’ultimo diritto dell’uomo, che è di tornare alla polvere. Ora è la mummia che galleggia nel tempo, protetta dalla severità delle guardie.

Forse ho sentito le parole che rivolge ai turisti, proferite in una lingua che il XXI secolo ignora.

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E’ dunque chiaro che sussiste un problema Stalin (1).
Qui la foto di un appello che ho trovato alla Casa del Governo, e che dice: «ABBIAMO BISOGNO di una legge approvata e promulgata che vieti la glorificazione di Stalin. Milioni di morti necessitano delle vostre firme».

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E’ dunque chiaro che sussiste un problema Stalin (2).
Qui una citazione (in inglese) dall’ultima biografia autorevole di Stalin:
«In today’s Russia, on the other hand, Stalin’s image is primarily being shaped by pseudo-scholarly apologias. An extremely diverse array of authors, all with their own motivations, contributes to Stalinist mythology. Most of these authors blend a lack of the most elementary knowledge with a willingness to make bold assertions. Their apologias typically cite fabricated sources or shamelessly misrepresent real ones. The impact of this powerful ideological assault on readers’ minds is intensified by the circumstances of Russian life, which include rampant corruption and outrageous social iniquities. When they reject the present, people are more likely to idealize the past.
Apologists for Stalin no longer try, as they once did, to deny the crimes of his regime. Instead they resort to more subtle rewritings of history. In their version of events, lower-level officials, such as secret police chiefs and the secretaries of regional party committees, supposedly hiding their actions from Stalin, instigated mass repression. The most cynical Stalinists take a different tack, claiming that the Terror was just and that the millions destroyed on Stalin’s orders really were “enemies of the people”».
Oleg Vital’evič Chlevnjuk, Stalin: New Biography of a Dictator, Yale University Press, New Haven-London 2015, Translated by Nora Seligman Favorov.

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Ho donato la mia copia del libro alla Biblioteca di Stato russa (ex Biblioteca Lenin). Ora si può leggere gratis a Mosca. Ma bisogna comprare il biglietto dell’aereo 🙂

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Un paese meraviglioso

Sabato scorso sono partito per Lecce, in automobile dal Lazio. Andavo a ritirare il premio della rivista “Gli asini”. Sono andato ad ascoltare Goffredo Fofi e, tra gli altri, gli storici Bruno Maida e Enzo Traverso, e a spiegare qualcosa di quello che scrivo. Nelle terre di Alessandro Leogrande, tra i suoi amici della rivista, che lo hanno spesso citato, evocato, commuovendosi, per tenerlo ancora presente nello spirito del lavoro, della ricerca, del cammino di un gruppo e di una comunità di persone.

Per arrivare a Lecce ho fatto le autostrade, le superstrade, le strade tra i monti e le litoranee. Nel giorno dell'”esodo”. Poi sono tornato. Un 900 chilometri. Non guidavo così a lungo da anni. Su quelle strade, negli stessi giorni, sono morti prima quattro braccianti del caporalato italiano, poi altri dodici migranti, braccianti del caporalato italiano; stivati nel camion come mezzi di produzione, forza lavoro disumanizzata. Un tir contro un furgone, e la morte. Ennesime vittime di uno sfruttamento che Leogrande ha denunciato in tanti suoi articoli e libri, a cominciare da Uomini e caporali.

Qualche centinaio di chilometri più sopra, l’apocalisse di Bologna: ho letto la notizia mentre mangiavo un panino in un bar, sull’autostrada dell’Irpinia.

Uscendo dal bar ho visto uno slogan e l’ho fotografato: “Sei in un paese meraviglioso”.

Poi, con molti dubbi e più certezze ancora, sono ripartito.

 

Il Premio degli Asini
«Il premio è nato nel 1992 su ideazione di Goffredo Fofi e ha attraversato nel tempo l’esistenza di quattro riviste: “Linea d’ombra”, “La terra vista dalla luna”, “Lo Straniero” e infine “Gli asini”. Il premio originariamente aveva il nome “Scommesse sul futuro” e veniva assegnato a nuove realtà e a giovani artisti, ma in seguito si è trasformato in un riconoscimento volto a tracciare una mappatura di giovani talenti e dei grandi vecchi nel tentativo di stabilire un’area di resistenti a una visione omologante della cultura. A questo proposito viene nominata annualmente una giuria che si occupa di indicare personalità, figure, artisti, associazioni ed enti che si sono distinte nel loro campo per quello che la rivista stessa definisce una particolare “filosofia asinina”, ossia una particolare testardaggine nello sviluppo dei progetti nei rispettivi campi di appartenenza».