Su «Cassandra a Mogadiscio» di Igiaba Scego

Ho letto, sottolineato, annotato per una decina di giorni Cassandra a Mogadiscio, il nuovo libro di Igiaba Scego. Poi l’ho posato sul mio tavolo. Poi me ne sono andato in giro nelle mie giornate, nel lavoro, nelle perdite di tempo, ma dedicandogli sempre uno scompartimento dei miei pensieri; pensieri che adesso ho provato a organizzare negli appunti che ho pubblicato su Nazione Indiana.

Quando qualcuno evoca la parola “storia”, penso subito a biblioteche e archivi, a carte, documenti e libri, a parole scritte e tramandate: parole come pilastri, carte come mattoni sui quali edificare, appunto, una storia (e una lingua, e uno stile). Ma non sempre si può disporre di un archivio, di un lascito familiare, di un deposito genealogico, di lettere o diari preziosi.

Questo libro – è la mia impressione – risolve con ammirevole sapienza il problema delle fonti, ossia del metodo d’indagine (e l’autrice è lei stessa fonte) e il problema della forma, ossia di un’architettura narrativa che trasmetta la voce della memoria. Poi ci sono molti altri temi altrettanto importanti, ho provato ad accennarli nel pezzo.

«Come d’aria», il libro stoico di Ada d’Adamo

«I don’t see the point of privacy.
Or rather, I don’t see the point of leaving testimony in the hands or mouths of others.»
Harold Brodkey, This wild darkness

Scorre da decenni nella letteratura occidentale – diciamo dal tardo Novecento a oggi -, una corrente memorialistica, intima, per quanto possibile onesta che dà voce al racconto autobiografico della malattia, a volte propria, a volte di una persona cara e amata. Forse dovrei precisare che questa voce nasce da un bisogno, nella psiche e nel corpo, di tirare fuori il dolore da sé, di renderlo altro da sé, esterno nella pagina scritta, enunciato, procreato, partorito ottenendo un lieve, per quanto illusorio, distacco. Oppure il bisogno è di lasciare una testimonianza, la propria, quindi disintermediata rispetto a qualsiasi eredità testimoniale raccolta da altri.

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Un effetto farfalla

È morta una persona cara. Abbiamo dovuto creare spazio in casa per gli oggetti che ha lasciato. Una cantina è stata svuotata. È stato affrontato un armadio: i suoi due scaffali più alti, subito sotto al soffitto, che non aprivo da vent’anni.

Ero convinto che contenessero solo i materiali della mia tesi di dottorato. Invece no. Ho (ri)scoperto quattro faldoni di carte appartenute a mia madre. Non ricordavo proprio di averle messe lassù. Avevo vissuto e dimenticato quelle carte.

Tra di esse (quaderni di appunti, bozze di articoli, poesie) ho trovato una cartella che riguarda Pranzi d’autore. Contiene ciò che oggi definiremmo Proposal: il progetto del libro proposto all’editore prima del via libera, del contratto e di mettersi al lavoro. Cartelle scritte a macchina (sulla Olivetti verde, un giorno ve la farò vedere), corrette in bozza, riscritte, appuntate in corsivo.

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