A Fahrenheit per parlare di Joseph Ponthus

Spero di avere reso un buon servizio a Joseph Ponthus e al suo davvero indimenticabile “Alla linea” (Bompiani), parlandone oggi, ospite di Fahrenheit Radio3. Che un lavoratore scrittore prenda la parola e racconti, e lo faccia con questo talento; che gli sia data la parola: è un fatto raro del mondo, editoriale e non. Sentivo quindi l’ingiustizia di essere lì al posto suo. Ma purtroppo Ponthus non c’è più, quindi chi di noi ha ammirato il suo romanzo deve per forza prendere la parola, brevemente, concisamente, per poi restituirla a un libro che è lì e aspetta il suo lettore.

Per chi volesse approfondire, qui il podcast della trasmissione.

[Qui invece la mia recensione su Domani]

Su «Alla linea» di Joseph Ponthus

Su Domani scrivo di un romanzo impressionante uscito da poco in Italia: Alla linea, di Joseph Ponthus (Bompiani). Di Ponthus mi aveva parlato per primo Alberto Prunetti, poco più di un anno fa. Adesso ho avuto l’occasione di approfondire. Alla linea è un’autobiografia in prima persona. La storia di un giovane uomo, proletario, istruito, colto, che s’impiega come lavoratore interinale nell’industria agroalimentare della Bretagna. Lo stile di Ponthus è libero, erratico, anarchico, lirico, ricco di un ritmo nel quale si ripercuote il lavoro coi sentimenti che detta al protagonista narratore: ansia, tristezza, sollievo, riposo, rabbia, voglia di cantare le tue canzoni del cuore o di declamare il tuo scrittore preferito per sopravvivere alla fatica fisica, alla fabbrica che ti strema, desiderio di tornare da tua moglie e dal tuo cane e via elencando. È l’esito, questo stile, di un attrito continuo tra il resoconto del lavoro e le fughe mentali dallo sforzo operaio (nella cultura, nella poesia, nella musica). Ed è giocoso, colmo di allusioni, digressioni e doppi sensi.

Questo libro lo consiglio vivamente.

La fabbrica mi ha calmato come un lettino
Se dovevo impazzire

Impazzivo i primi giorni ai gamberetti ai bastoncini di pesce al mattatoio
Impazzivo la notte del tofu
La fine della fabbrica sarà come la fine dell’analisi
Sarà semplice e chiara come una verità
La mia verità

[09.01.2023, il testo dell’articolo]

Lettori di tutto il mondo unitevi e leggete il romanzo del lavoro. Non abbiate timore del romanzo del lavoro. Perché esiste la classe cui dà voce. Perché quella classe è viva e vegeta, e ha molte storie da raccontare. Perché un romanzo operaio non può essere triste e non sarà mai noioso. C’è più vita, passione, amore, speranza in un romanzo operaio di quanto una filosofia ne possa sognare. A patto che quel romanzo esponga un’autentica voce working class. E c’è vita, passione, amore, speranza in questo Alla linea. Fogli di fabbrica (Bompiani), romanzo d’esordio di Joseph Ponthus, che approda nella lingua italiana, nella traduzione di Ileana Zagaglia, dopo avere riscosso un successo straordinario in Francia in seguito alla sua pubblicazione nel 2019. Quasi centomila copie vendute. Cinque premi vinti. Già tradotto in dieci Paesi. La letteratura working class può fare miracoli.

“Romanzo”: sì, va bene. Accettiamo il termine ma precisiamo. Alla linea è un’autobiografia in prima persona. È un memoir ed espone un frammento di vita. La storia di un giovane uomo, proletario, istruito, colto, che s’impiega come lavoratore interinale nell’industria agroalimentare della Bretagna. All’inizio in uno stabilimento ittico (prima parte del volume). Poi in un mattatoio spietato (seconda parte). È quindi un libro di verità e non di finzione, e procede, giorno dopo giorno, notte dopo notte, turno dopo turno, al ritmo del prosimetro, misto di prosa e poesia in verso libero, privo di punteggiatura ma non se ne sente la mancanza, i punti e le virgole qui non servono, la storia si capisce anche senza di loro.

Lo stile di Ponthus è libero, erratico, anarchico, lirico, ricco di un ritmo nel quale si ripercuote il lavoro coi sentimenti che detta al protagonista narratore: ansia, tristezza, sollievo, riposo, rabbia, voglia di cantare le tue canzoni del cuore o di declamare il tuo scrittore preferito per sopravvivere alla fatica fisica, alla fabbrica che ti strema, desiderio di tornare da tua moglie e dal tuo cane e via elencando. È l’esito, questo stile, di un attrito continuo tra il resoconto del lavoro e le fughe mentali dallo sforzo operaio (nella cultura, nella poesia, nella musica). Ed è giocoso, colmo di allusioni, digressioni e doppi sensi. A cominciare dal titolo, À la ligne, che in francese vuol dire sia stare alla linea di produzione, sia andare a capo quando si scrive; ma la traduzione italiana ha saputo risolvere le questioni che il testo originale ha inevitabilmente posto (ad esempio qui: “Scrivo come lavoro / Alla catena / Alla linea e sulla linea a capo”. Nell’originale: “J’écris comme je travaille / À la chaîne / À la ligne”.)

L’unico elemento fittizio di questo caso editoriale è il nome dell’autore, in realtà pseudonimo di Baptiste Cornet (1978-2021). Il nom de plume è un omaggio a San Giuseppe, patrono dei lavoratori, e a un Pontus de Tyard poeta cinquecentesco. Ed è un paradosso che sopra, nelle mie formulette cattura-attenzione, io abbia parlato di vita e speranza per introdurre uno scrittore morto prematuramente. Ponthus avrebbe compiuto quarantadue anni nel 2022. Ma non ha fatto in tempo. C’è molto, troppo di ingiusto in questa traiettoria biografica. Come se un mondo già crudele con la working class avesse voluto mostrare un segno ulteriore, di tale crudeltà, colpendo un giovane scrittore del lavoro nel momento del suo meritato successo. Purtroppo non potrò mai incontrare Ponthus. Allora sono andato a cercarlo su YouTube. E ho trovato una sua apparizione in una trasmissione televisiva francese. Ho incontrato un uomo alto e dal vasto sorriso, gli occhi luminosi e azzurri dietro lenti da miope, un ciuffo di capelli un po’ punk, una barba rossa da pirata, una maglia a righe da marinaio indossata sotto la giacca blu, una voce timida per rispondere alla domanda del conduttore: “Ma perché lei è finito a lavorare in fabbrica?”. La risposta è splendida: “Per amore”. Tutto qui. L’amour. Una compagna. Un trasloco in una nuova città. Il bisogno di lavorare per vivere (“Non ci andavo per fare un reportage / Men che meno per preparare la rivoluzione / No / La fabbrica è per i soldi / Un lavoro per campare”).

Siamo orfani del suo autore, ma ci resta il dono di un libro toccante. Come dicevo, diviso in due parti. La prima forse più lieve, diario onirico di un’esperienza di fabbrica che impone un lavoro sì gravoso, ma ancora sopportabile. Dove, tra un gamberetto e l’altro, non è raro imbattersi in ironia e comicità (“Oggi ho scaricato trecentocinquanta chili di chimere / Fino a stamattina ignoravo che esistesse un pesce con questo nome / È bastato a farmi felice stamattina / Dirmi che avevo scaricato chimere”). La seconda parte è invece più cupa (ma non meno bella, anzi rifulge), sopraffatta com’è dal racconto del nuovo incarico in un mattatoio, dunque dall’obbligo di descrivere un posto implacabile. Qui le pagine si impregnano di carcasse smembrate, maiali e altri mammiferi, e si colorano di un sangue inestinguibile, dentro il luogo più violento inventato dall’industria umana. A questa esperienza il “personaggio” Ponthus resiste anche col fare ricorso a un pantheon di citazioni e digressioni psichiche (mentre lavora) e testuali (quando scrive). Apollinaire, Proust, Perec, Cendrars, Hugo, Trenet, Upton Sinclair e molti altri. Un controcanto che salva l’operaio dalla tristezza delle sue mansioni. 

Alla linea, grazie a uno stile notevole e ai tanti rimandi letterari, va al di là della narrativa testimoniale di fabbrica, ma la sua importanza resta soprattutto politica, perché mostra la realtà del lavoro interinale, ossia di quel nuovo “esercito di riserva del capitalismo” sempre pronto a una chiamata quando e dove occorre, ma ormai mutato in una specie operaia isolata e ad alto rischio di perdere il senso della solidarietà. Il romanzo di Ponthus non assomiglia alle opere dei Di Ruscio e Di Ciaula, dove l’esperienza manifatturiera genera una consapevolezza esistenziale. Ponthus entra in fabbrica già pienamente consapevole, è un intellettuale. Ma non è un infiltrato. Non è un Orwell, o una Ehrenreich o un Wallraff. Non va in fabbrica per raccontare quel mondo ai borghesi. Ci va per lavorare e guadagnare. Lo scrittore Alberto Prunetti, che a Ponthus ha dedicato pagine acute, anche nel fresco di stampa Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class(minimum fax), mi spiega: “In Gran Bretagna lo avrebbero definito ‘a person with a working class background’. Ce ne sono molti nelle fabbriche di oggi. Veniva da una famiglia di estrazione popolare, ma, grazie al sistema aperto dell’istruzione francese, si era dotato di una formazione scolastica alta, arrivando addirittura a frequentare una facoltà universitaria di élite. Poi aveva subito una riproletarizzazione, il che accade spesso alle persone istruite e laureate dei ceti non borghesi. Era diventato educatore nelle periferie di Parigi. Era un attivista radicale e militante. Finché non si innamorò di una ragazza bretone e cambiò vita”. 

Sarebbe meraviglioso se Alla linea replicasse in Italia il successo francese. Ma perché ha avuto tanto successo? Forse perché ricorre a parole e sentimenti che ogni lettore, quale che sia la sua estrazione sociale, potrebbe usare e provare. Forse perché racconta la fabbrica come un’esperienza che potrebbe capitare a tutti. L’esperienza del lavoro, la parola lavoro: nel 1948 Lucien Febvre dedicò un breve e illuminante saggio all’evoluzione del termine (è stato ripubblicato in Lavoro e storia, Donzelli 2020). In quel testo il grande studioso ricostruiva “una strana avventura, quella della parola (“travail”, ndr) che, muovendo dal significato di torturare, ‘tripaliare’, cioè torturare col ‘tripalium’”, implicò a lungo nell’età moderna un senso di “afflizione, spossatezza, sofferenza e anche umiliazione”. A partire dall’Ottocento, ad esempio nell’utopia di Fourier, quel vocabolo si capovolse nel sogno del “lavoro-gioia” e in un tempo nuovo nel quale “finalmente le classi lavoratrici conquistarono il diritto alla storia perché operaie, non più perché miserabili”. Per Febvre nulla avrebbe impedito all’uomo “di lottare” perché il lavoro diventasse “un giorno la dolce legge del mondo”. Lo sfortunato Ponthus ci racconta che non è andata così: “Al mattatoio / Ci crediamo / Però / Un giorno / Alla scomparsa del lavoro / Ma quando cazzo / Ma quando”.

Una presentazione romana di Storia aperta, il 22 settembre con Lisa Ginzburg

Piccola segnalazione, a chi possa interessare: giovedì 22 settembre, a Roma, presentiamo (ancora!) Storia aperta. Sarò felice di poterne parlare con Lisa Ginzburg, che ringrazio per avere accettato. Saremo ospiti della Libreria Equilibri. Prima presentazione di quartiere, in un giardino all’aperto, le spalle rivolte a Monte Mario e all’Osservatorio (molto sopra) e alla suggestiva e pericolosa via Panoramica (molto sotto). Sarà forse l’occasione per fare un bilancio del percorso del libro, a un anno dalla sua pubblicazione.

Continua a leggere “Una presentazione romana di Storia aperta, il 22 settembre con Lisa Ginzburg”