Non tutti ameranno l’abbondanza di virgolette che attraversano in ogni forma e specie i testi di Città distrutte. Eppure senza quel tessuto, senza quei fili che sporgono antiesteticamente e tutti quei bottoni e quelle asole, l’abito non terrebbe, anzi non esisterebbe proprio. L’obiettivo del libro è il meticciato tra storie vere e d’invenzione, fonti vere e d’invenzione. Ma al contempo dovevo espungere qualsiasi scorrettezza citando nel modo appropriato i testi non immaginari.
Nell’uso stratificato, quindi, i caporali sono riservati alle «vere» citazioni tratte da testi pubblicati o inediti, e da fonti d’archivio. Mentre finte citazioni di opere inventate o discorsi diretti sempre d’invenzione sono tra “apicali”, o a volte (i dialoghi) in corsivo.
Il sistema serve non solo per correttezza verso le fonti, ma anche per evitare note a piè di pagina che avrebbero smontato l’ambizione letteraria del testo.
La faccenda si complica in Migliorisi, dove ai «testi» tratti da manoscritti o libri di mio padre si aggiungono due diari della Guerra d’Africa che riporto tra ‘virgolette semplici’ oppure <così>.
Per quanto riguarda i testi di mio padre e mia madre inseriti nelle biografie ispirate infedelmente alle loro esistenze, mi è sembrata un’occasione imperdibile di strapparli per un momento al dimenticatoio dell’umanità: così da riportarli nella loro bellezza alla luce delle mie pagine. Ma quando anche sulle mie pagine calerà il buio, toccherà ad altri il compito di restituire vita ai morti.
In alcuni casi (Éster Terracina) dove non cito quasi per nulla fonti vere, il sistema non è servito. In altri (Kauder a Roma) non è stato sufficiente, a causa del corpo bibliografico di carteggi e opere humboldtiane (sia di Wilhelm, sia di Alexander) che hanno obbligato alle note.
Tra prime e seconde bozze qualche problema nell’applicazione del sistema c’è stato. Per fortuna l’editore non è uscito matto, e lo ringrazio di aver soprasseduto sulle sue norme redazionali lasciando il campo a tutti i miei simboli.