Ermanno Rea e il nome esatto delle cose

Per Ermanno Rea (Napoli 1927 – Roma 2016) nutrivo un’ammirazione priva di esitazioni o dubbi. Il che – immagino – è una rarità, quando si ha a che fare con uomini e donne che lavorano con le parole, e ne possono sempre dire o scrivere una di troppo o che non ti piace.

Mi capitò di scoprirlo vent’anni fa, con Mistero napoletano, un libro fondamentale per me che ero abituato a tutt’altre memorie comuniste (Una scelta di vita e dintorni, per intenderci).

Quando «l’Unità» e la Cgil ripubblicarono il suo La dismissione in una collana di narrativa sul lavoro, ebbi l’occasione di intervistarlo. La dismissione è la storia di una fabbrica smantellata pezzo a pezzo: l’Ilva di Bagnoli, la cattedrale siderurgica del meridione. Ed è la storia di Vincenzo Buonocore, un operaio qualificato che smonta la fabbrica per i suoi acquirenti cinesi. Un operaio talmente bravo e competente da essere più bravo e competente dei suoi stessi capi.

A volte provo a immaginare cosa e chi sarebbe stato Buonocore in un’altra epoca della storia italiana, magari al Nord, nel 1969, durante l’occupazione e l’autogestione delle fabbriche: sarebbe stato senza dubbio un operaio in grado di gestire e dirigere uno stabilimento; e allora ce ne furono molti. Grazie a Ermanno Rea mi è rimasto impresso, indelebile, questo personaggio di lavoratore raccontato senza retorica, trovando sempre le parole giuste.

Di quell’intervista a Ermanno Rea c’è il video di «Rassegna.it» su YouTube. Qui Rea parla di Bagnoli, dell’industrializzazione fallita di Napoli, delle speranze e delle delusioni. Verso la fine dice una cosa importante…

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“Avevo l’obbligo di capire di cosa parlavo: i termini esatti, il nome esatto delle cose”.

Compito che si concretò nelle tante pagine esatte del romanzo. Ne ho aperta una caso e la cito qui:

«Il mio progetto era semplice, in un certo senso banale, ma anche stimolante per una persona non priva di passione creativa. Avevo deciso di ripulire i bulloni di tutti i detriti che vi si erano accumulati sopra, riportandoli alla loro forma originaria. E se l’acciaio liquido avesse “mangiato” del tutto i bulloni? Si trattava di un’ipotesi estrema ma non impossibile. In tal caso il problema sarebbe stato quello di ricrearlo di sana pianta. Non ero forse il figlio di un intagliatore, di un artista? Tutto sommato non avrei dovuto dar forma ad alcun angelo, ma soltanto a un semplice bullone

[…]

Ce l’avrei fatta: non avevo dubbi. Qualche incertezza ce l’avevo semmai su quello che sarebbe successo dopo, quando avessi tentato di svitare i bulloni pazientemente ricostruiti ricorrendo a tutti i mezzi a mia disposizione. A cominciare dal più potente di tutti: le chiavi a battere.

Facevano parte della mia attrezzatura, come le chiavi pneumatiche ad aria compressa e lo stesso cannello ossidrico, da usare nel caso avessi fallito l’impresa.

[…]

Tirai il fiato e mi misi a lavorare. Con una matita grassa a punta sottile tracciai delle linee sui fianchi del grumo, dopo aver preso con un metro metallico a scatto alcune misure per individuare il centro esatto del bullone sommerso. Subito dopo cominciai a lavorare di scalpello, in modo da creare lungo le linee tracciate a matita un solco diritto e profondo utile a delimitare quella che sarebbe stata la mia prima area di intervento, la più periferica. Prevedevo infatti di procedere verso il bersaglio per successive tappe di avvicinamento a carattere rotatorio.

Tracciai il solco con grande rapidità e cominciai subito l’opera di pulitura vera e propria, usando alternativamente uno scalpello a lingua larga e uno con la punta a chiodo».

[ Ermanno Rea, La dismissione, Rizzoli 2002, pp. 296-297 ]

Siamo stati fortunati ad avere uno scrittore come Rea. Spero che non smetteremo mai di leggerlo e rileggerlo.