«Lettere a una fanciulla che non risponde» = volevo “solo” raccontare?

Esce in questi giorni, per Bompiani, Lettere a una fanciulla che non risponde, il mio nuovo romanzo. Il libro è composto di dodici lettere (che potrebbero essere anche dodici racconti, e sono in effetti dodici storie) e “dura” circa duecento pagine. Di cosa si tratta? Provo a spiegarlo.

Un uomo? (non proprio un uomo)

Un uomo (non è proprio un uomo, ma è più umano di un essere umano) scrive lettere alla donna che lo ha lasciato dopo una relazione durata trent’anni. Cacciato di casa, lui ora viaggia in un esilio interminabile. In un mondo futuro. O in un tempo alternativo al nostro. E si interroga sulla storia d’amore finita, sul perché della fine.

Mentre viaggia, incontra storie e avventure e le racconta. La donna che lo ha abbandonato riceve le sue parole affidate ad antichi strumenti: la penna, l’inchiostro e la carta. Sono oggetti arcaici e patetici per il mondo altamente tecnologico nel quale prendono vita. Ma l’uomo che scrive non ha altro. L’uomo che scrive sa che, se finissero le storie, finirebbe il racconto e finirebbero le lettere, unici dispositivi che tengono in vita il suo amore. Quindi continua a scrivere.

Un’identità maschile

Il protagonista (con ironia e in paradosso, visto che non è esattamente un uomo) si interroga sulla propria identità maschile, sulla propria natura, sulla propria capacità di amare e accudire. Mi sono chiesto quali fossero gli assi cartesiani e anche le debolezze attorno alle quali mostrare un’identità maschile che si definisse più che altro attraverso la relazione d’amore, la durata nel tempo dell’amore, la sua maturazione in desiderio di cura e tutela della persona amata. L’uomo che scrive ragiona su tutto questo.

Perché le lettere? Prima risposta

La donna ha interrotto ogni canale di comunicazione digitale con lui. Il muro è alto e il silenzio è profondo. L’uomo rimedia una risma di carta, un calamaio e una penna. E inizia a scrivere lettere al modo antico. Le invia alla donna come messaggi in bottiglia da un naufrago. Non ha altro sistema per raggiungerla. Nemmeno sa se lei riceva davvero le lettere. Solo noi lettori lo sappiamo, perché vediamo i commenti che la donna traccia sui margini e i dorsi delle lettere ricevute.

Perché le lettere? Seconda risposta

Il sistema epistolare, seppure imperfetto (non è un vero carteggio, non c’è mai risposta) incontra anche un mio bisogno. Volevo un io che non fossi io. Volevo un io che dicesse non solo io, ma dicesse anche tu, e loro, e noi. Volevo scrivere un libro di storie e non di Storia. Senza misurarmi con materiali storiografici o di archivio. Volevo soltanto raccontare. E ho trovato un buffo personaggio che lo ha fatto per me.

Raccontare è una forma di conoscenza

Nella sua prima lettera l’uomo scrive: «Ho deciso che non so nulla e per questo ho deciso il racconto, che è se non sbaglio il tentativo di spiegarsi la vita riepilogandola dal principio alla fine, il racconto è dove la mia ignoranza prende una forma così che io possa vederla, e la vedrai bene anche tu».

Esistono due generi di parola scritta. La parola scritta, più che altro saggistica, di chi sa come funziona una certa cosa e decide di spiegarlo. È, di norma, una parola scritta molto intelligente e consapevole.

Poi c’è la parola scritta di chi non sa, non ha capito e ha bisogno di comprendere. E lo fa narrando. Raccontare una storia è un tentativo di capire partendo da una condizione di oscurità o ignoranza. Qualcuno si alza in piedi ed esclama: «Non sai cosa mi è successo! Ora te lo racconto». Nemmeno lui sa cosa gli è successo. Per saperlo ha bisogno di raccontarlo.

L’uomo che scrive ha bisogno di raccontare la propria vita e l’amore per la donna, per saperli. E ha bisogno di raccontare il mondo nel quale viaggia, per capirlo davvero. È un mondo colmo di abusi, di ceti, di creature che sfruttano e di creature asservite, di acque incombenti e deserti. È un mondo colmo di storie.

Quante storie!

In effetti sono tante, in questo libro. E non mi va di bruciarle qui con qualche parola di troppo. Sono già di troppo le parole che ho adoperato finora, e non sono a mio modesto parere all’altezza delle parole adoperate nel romanzo. Perché qui devo comunicare, e quindi diminuisco.

Il libro invece è letteratura, buona o cattiva che sia. E in letteratura non devi per forza comunicare, e a volte aumenti (approfondisci qui).

In piú, anzi soprattutto, ed è un altro comune fraintendimento, si crede, anzi si dà per scontato, che chi scrive voglia comunicare, abbia cioè un qualcosa, un oggetto, che ha necessità di essere comunicato, ovvero, volendo parlare con lingua diritta, di essere venduto; e ancora, procedendo nell’addizione, in negativo, si dà per scontato che il vero oggetto che l’autore vuole comunicare, al di là dell’oggetto libro e attraverso esso, sia in realtà l’autore medesimo. Anche questo è, purtroppo, del tutto normale, ma, in questo caso, qualcosa da aggiungere forse c’è. Comunicazione!, parola chiave dei tempi nostri attorno a cui ruota un insieme di rispettabili professioni che fanno della contraffazione semantica una scienza. Se i cosiddetti «professionisti della comunicazione» comunicassero in modo semplice e chiaro non avrebbero alcuna ragion d’essere; lo stesso per i vari corsi di laurea, piú o meno specialistici, e anch’essi proliferanti, in Scienze della comunicazione, dove tutto si insegna meno che a comunicare in modo chiaro e diretto, semmai il contrario. Ne escono giovani mostri addestrati a complicare e a manipolare il linguaggio, qualsiasi linguaggio, in modo tale che, allo stato attuale, ogni vera genuina umana conversazione, ovvero una pratica di relazione non contaminata dal germe della comunicazione, che non voglia perciò sempre e necessariamente imporre (vendere) all’altro un oggetto, una verità, una sensazione, un’opinione, una visione del mondo eccetera, dove chi parla, o scrive, voglia semplicemente esprimersi, è ormai praticamente impossibile, a partire da quella con se stessi. Non c’è dunque di che stupirsi se, nella produzione libresca degli ultimi decenni, il novecentesco (cosiddetto) «flusso di coscienza» sia stato sostituito da quell’insopportabile, insostenibile, illeggibile «flusso di comunicazione», oltretutto interiore. Comunicare se stessi a se stessi, cioè vendersi e comprarsi da sé! Spesso inconsciamente. Altrettanto spesso consciamente. Piú spesso ancora, come per un sacco di altre cose, si sa ma ci si rifiuta di sapere. Ci basti dire, per chiudere con questa triste e penosa digressione, che allo stato attuale lo scrivere, il pubblicare, l’andare in scena eccetera, non sono affatto un fine, ma un mezzo, uno degli elementi che concorrono a una piú complessa e, per definizione, subdola strategia di comunicazione, ovvero di marketing, di cui l’autore, che si crede un marchio, ma in realtà è un marchiato, è al tempo stesso oggetto e soggetto.

Vitaliano Trevisan, Works (Edizione ampliata), Einaudi, Stile libero big, pp. 626-627, edizione Kindle.

Quindi, per dare una qualche idea delle storie, mi limito all’indice:

  • Prima lettera a una fanciulla che non risponderà

  • Seconda lettera.
    La Fondazione multiarto di Braunschweig

  • Terza lettera.
    La costruzione dell’ignipotens

  • Quarta lettera.
    Il multipugile

  • Quinta lettera.
    Una gita in campagna

  • Sesta lettera.
    Il Primato di Aberdeen
  • Settima lettera.
    Struzzo

  • Ottava lettera.
    Nel supermercato

  • Nona lettera.
    Figure

  • Decima lettera.
    Piana del Sele

  • Undicesima lettera.
    La colonia estiva di Agreste

  • Ultima lettera a una fanciulla che non risponderà

La copertina è IA

La scelta della copertina ci ha impegnati per diverso tempo. Grazie, devo dire, all’editore, che è stato disponibile a discuterne con me e la mia agente fino alla decisione definitiva. Questa illustrazione, questo paesaggio rappresentativo del mondo raccontato nel romanzo, è il frutto di una collaborazione tra intelligenza umana e artificiale. L’immagine, tratta dalla piattaforma Freepik, è stata generata da Sketchepedia con un software IA.

Per avermi accompagnato e consentito questa avventura ringrazio l’editore Bompiani, l’intera sua redazione e in particolare Giulia Ichino e Tommaso Maiorelli, e la mia agente Giulia Pietrosanti.