Lorenzo Mari, Esordire tra città e personaggi
Dopo aver letto “Città distrutte – Sei biografie infedeli”, sono tormentato da un crescente senso di certezza, che in sé vuol dir poco, e tuttavia riassume quanto posso dire di questo libro: non si può parlare di Davide Orecchio nei termini di un “esordiente già maturo”. Sarebbe un torto al testo, in primo luogo; un adeguamento al linguaggio biforcuto della critica letteraria, autentica o pseudo-critica che sia; uno smottamento negli inferi del parlare per sottintesi, e tra le righe, che cerca di blandire, mentre pugnala nella schiena. Un parlare tipico di chi già aspetta al varco il secondo testo, che non potrà essere come il presente, né ricalcarne lo stile – ma il critico di oggi, in fondo, ha ben poche aspettative! – per censurare, infine, un esordio promettente, “che si è già perso”.
Le citazioni d’onore – i premi prestigiosi vinti da “Città distrutte”, le ottime recensioni ricevute – allora non valgono, per il momento. Piuttosto, cercherò di parlare dei personaggi-città di Orecchio, che riempiono la scena progressivamente, diventando spettrali compagni di viaggio – a volte specchi, a volte frammenti di specchio che riflettono altri specchi, e poi altri specchi, e poi altri ancora… Fino a restare schegge opache di vetro, che nella carne, nella carne di chi legge, hanno il potere di far male, infettare, o semplicemente richiamare alla vita tessuti morti – che non è poco.
Sono personaggi che si articolano, più che altro, tramite citazioni di libri introvabili o perduti, espandendo il testo in mille riferimenti intertestuali che, sospesi sempre tra verosimiglianza e incredulità, comunque hanno l’effetto di soffocare la narrazione biografica alla quale sono di volta in volta chiamati, riducendola in brandelli, in pezzettini, ed esponendola come su un tavolo anatomico del Seicento. O come nella retina del poeta che osserva il campo pieno di macerie. Perché di poesia sono piene le ‘città distrutte’ di Orecchio. Personaggi poeti o aspiranti tali, tormentati o graziati, in modo sempre ambivalente, dalla poesia. Splendide e terribili le pagine dedicate al poeta proto-fascista Pietro Migliorisi (1915-2001), per esempio. Meno spettacolari altri inserti poetici, che flirtano con il poetese d’antan.
Ma tant’é. Orecchio è narratore che s’interessa alla questione poetica, vivendola e facendola vivere ai suoi personaggi. Riportare al centro della narrazione la poesia, non in quanto celebrazione estetica dell’esistente, ma come questione sul genere che è già di per sé sui generis, è un’operazione ardua e che Orecchio compie piuttosto bene, nonostante qualche sbavatura, qualche caduta in tono minore.
Ricade spesso, il narratore, anche su un altro punto, ovvero su uno stile frammentato e avvolgente, temporalmente sconnesso e poi ri-connesso implicitamente, che rischia di contagiare, riempiendo di virgole, anche questa recensione. La ricostruzione delle città distrutte, nella narrazione, è sempre dietro l’angolo – secondo l’eterna tentazione di riportare all’ordine: quando Orecchio non vi ottempera, proponendo svolte e deviazioni della narrazione, ottiene di affascinare; quando vi cade, sembra di leggere il monologo teatrale di una buona voce narrante come quella di Marco Paolini, ma niente più.
Lo charme – è questo il punto, per un esordiente, che non è “già maturo”, e forse non è neanche “esordiente”, ma è sempre stato lì, con noi – non si fa mai marchetta. C’è solo un testo che si vorrebbe far leggere a voce alta: a volte, l’urgenza di dire sovrasta il dire per vie impensate, anche senza dare di pancia. Perché anche della pancia, o dell’io, si può parlare. L’io narrante fa capolino tra una citazione e l’altra, lasciando emergere una soggettività sincera (secondo il dogma della New Sincerity americana, ormai fattosi mainstream anche in Italia – e non è una cattiva notizia) ma che si lascia sommergere da altre parole. Altre macerie. Altre corpi. Altri specchi. Altre città. È un invito che passa dal narratore al lettore, continuamente. Come nel miglior esercizio scrittorio: Orecchio ha impostato l’esercizio e continuamente lo trascende. Invita il lettore a fare altrettanto, ed è come se lo facesse da sempre. Così, né più né meno, interrogano le macerie.