Ho pubblicato su Nazione Indiana un dialogo sui gatti del professore. Qui l’incipit:
– Credo ne abbia avuti a decine, e di razze diverse.
– È vero. Certosini, soriani, birmani, meticci, bastardi. Ho perso il conto. Ricordi la gatta grigia e nera che, quando lui l’accarezzava, faceva le puzze?
– Rincasava nel bilocale di Ponte Milvio.
– Acqua Acetosa.
– Sì. La prima moglie era ancora in casa editrice. Lui posava la cartella, sedeva in poltrona ed ecco la gatta!
– Subito sulle sue gambe. Ad accucciarsi, a prendere carezze. Chiudeva gli occhi. Inarcava il dorso. Ma non faceva le fusa. Non ronfava.
– No. Una sfilza di peti.
– Però silenziosi. Il professore sentiva la puzza e scoppiava a ridere. Non l’ha mai scordata.
Poi ce ne fu una che sparì. Era rossa. Andava per strada
– Quella gatta? Impossibile dimenticarla. Poi ce ne fu una che sparì. Era rossa. Andava per strada. Scappava dalla finestra di un appartamento al pianoterra. Un ex portineria, nei primi anni tristi del professore.
– Quando divorziò?
– Sì. E si teneva compagnia con quella gatta troppo bella per andare per strada.
– Una Rita Hayworth.
– Una roscia. La mattina lo svegliava graffiandogli i piedi. Lo fissava senza pudore. Un giorno uscì e non è più tornata.
– L’hanno presa. Succede alle gatte belle.
– Ricordi la gattina tigrata che morì a un mese d’età?
– Purtroppo sì. Cadde dalla finestra.
– Ti confondi. Ebbe un’occlusione intestinale. Una domenica mattina il professore la trovò fredda, sdraiata per terra tra la cuccia e la lettiera che aveva provato a raggiungere per fare la cacca. Allora il professore, per distrarsi, andò a Porta Portese, ma pensava alla gattina e piangeva.
Qui il seguito