Senza Patrice Vuillarde (1920-2007) non avrei mai scritto Città distrutte. Me ne suggerì l’idea molti anni fa, poco prima di morire, durante il suo ultimo soggiorno romano e al termine di un seminario che tenne col solo equilibrismo (e la forza) della mente, lasciando che l’uditorio intuisse parole che le sue labbra essiccate appena esalavano e cogliesse lampi d’ironia negli occhi che il filosofo francese proteggeva sotto le palpebre testudinate.
Durante una pausa catturai la sua attenzione. Non ricordo l’innesco del nostro colloquio, secondario come ogni stratagemma. Ma il tema sì. Parlammo della vita e del modo per rappresentarla. Gli esposi un mio progetto di compendio biografico insieme ai dubbi che gli stavano appesi come alghe alla chiglia. La replica di Vuillarde si calò dal tetto di un sussurro e gli sopravvive in un appunto, ora che lui è ossa in una prigione di terra:
«Ogni vita merita di essere raccontata, ma porta con sé un garbuglio di fascino e prosaicità dove l’avvincente è annodato al prolisso e districarli è impossibile. Eppure un biografo ha il dovere di esporre cause ed effetti senza trascurare alcun innesco e non un solo strascico. Così le opere si dimostrano scientifiche. Ma è altrettanto certa l’apparizione di pagine noiose. L’autore non potrà sottrarsi a parentesi prive di dramma e buone solo per gli sbadigli. Quello che ho descritto non deve interessarti. Scansa l’ostacolo. Racconta ibridi. Se vuoi mostrare la verità, illustra menzogne».
Il saggio Vuillarde consigliava usurpatori, furti, vicende prese in prestito. Avrebbero messo al mondo figli, scritto libri, pianto morti. Ma il loro destino era di restare falsi – suggeriva il filosofo –, ombre staccate dai corpi di uomini e donne che avevano vissuto davvero, mica per scherzo; e di giocare, scappare, deformarli.
Gli chiesi: «Professore, un calco è diverso dalla sua matrice?».
Rispose: «Molto e poco, dipende. Nel caso del tuo lavoro, sì».
R.I.P.