Il Riformista, 9 marzo 2012
Francesco Longo, Storie irregolari di “Città distrutte”
Non sono racconti e non sono biografie. Sono forse l’anello mancante tra questi due generi letterari. Certamente, sono sei testi pieni di intarsi e citazioni, costruiti con tasselli di lettere, diari, leggende e, testimonianze, materiali che danno vita a un’ineffabile stratificazione linguistica che la copertina del libro definisce come “Sei biografie infedeli”. La casa editrice Gaffi ha pubblicato il libro di Davide Orecchio, intitolato “Città distrutte” (pp. 239, euro 15,50) e presenta questa raccolta di scritti come: racconti. Se davvero sono racconti, lo sono in modo del tutto irregolare e sui generis. Ogni città distrutta è la vita di uno dei protagonisti di queste storie che seguono il bilico tra verità documentale (si basano su storie reali) e fiction. Davide Orecchio ha selezionato delle parabole dolorose e le ha seguite così tanto da vicino da aver sentito, ad un certo punto, la confidenza per appropriarsene. La prima racconta la storia di Ester Terracina, ragazza vissuta nella metà del Novecento. Siamo in Argentina, militari in giro, dittatura, molta violenza. Il racconto cuce una vita perfettamente modellata dalla Storia di cui è parte: «Del periodo che segue restano tracce confuse, come se l’inabissarsi dell’Argentina riecheggiasse in una biografia che evapora». Il gesto finale della ragazza è paragonabile solo a certi slanci dei santi. Il secondo racconto inizia con una frase che contiene una intera vita: «Nasce e muore d’autunno». È la storia di Eschilo Licursi. In questi testi, la vita corre sempre troppo veloce, tutto è tumultuoso e inafferrabile: «Nel quindici torna a Consume dove trova la madre invecchiata». Ogni racconto è il frutto della sua ambientazione, che siano gli anni neri della guerra sovietica o la città di Roma. Forse tutti i racconti cercano di rispondere a queste domande: «II passato è solo carta? Oggetti impolverati? Bombe inesplose? Camposanti?».
La prosa di Orecchio è ricca, estremamente evocativa, a volte fin troppo cesellata, tanto da togliere il respiro e affaticare nella lettura quando tutto, in ogni frase, sembra voler tendere alla suggestione: «È spaesato, non nella città ma nelle strade che ha dentro. Come un rampicante che cresce troppo in fretta allungando i rami freschi dovunque purché sempre in alto, per poi ritrovarsi debole alla base, sfinito in un inverno rigido e defogliarsi sotto mentre sopra resta l’illusione delle fronde – anche in lui è avanzato un deserto che non prevedeva e l’annota nel diario il cinque luglio dell’ottocentosei».