Europa, 16 marzo 2012
Giovanni Dozzini, Sei biografie infedeli del Novecento
Davide Orecchio racconta le copie imperfette di vite di altri
Queste donne e questi uomini sono impostori, ma non per scelta propria. È così che le loro vite hanno finito per esistere, copie imperfette di vite di altri: riflessi, ombre, impronte, imitazioni. Biografie infedeli, dice Davide Orecchio, il loro demiurgo, colui che ha inseguito i segni di quelle altre vite e li ha fatti coincidere con le proprie visioni. Sei esistenze, sei storie raccontate in un libro appena pubblicato da Gaffi. Si intitola Città distrutte (238 pp., 15.50 euro), ed è un catalogo di falsi d’autore.
Èster Terracina, argentina nata da italiani scappati dalle leggi razziali e scomparsa nel buco nero della dittatura di Videla, ha cose in comune con molte donne, martiri di un tempo tragico e inumano. Lei non è reale come lo sono state loro, ma vera. Eschilo Licursi, sindacalista e comunista, eversivo nel Molise fascista e parlamentare frustrato nel secondo Dopoguerra, somiglia moltissimo a Nicola Crapsi, ma non è lui. Valentin Rakar, cineasta, russo, esiliato, ha tratti che ricordano in maniera impressionate quelli di Andrej Tarkovskij, eppure a guardarli da vicino emergono – forse ancor più chiaramente – anche le differenze. Pietro Migliorisi, poeta trionfante ai Littoriali del 1939, fascista, soldato d’Africa, poi apostata e cronista di foglio di partito, sembra davvero Alfredo Orecchio, il padre dell’autore, e ci sono i dettagli, per forza, ma all’uno mancano i successi e le soddisfazioni dell’altro: quei due non sono gli stessi, non fino in fondo. Betta Rauch, letterata, donna inquieta e scontenta, riesce a sovrapporsi a Oretta Bongarzoni, che dell’autore è la madre, e tuttavia questa sovrapposizione non è, non può essere, perfetta. Kauder, infine, prussiano filosofo e incapace di rassegnarsi alla vita ingoiato dalla decadenza romana d’inizio Ottocento, è nient’altro che una versione possibile di Wilhelm von Humboldt.
Ed è facile domandarsi perché, chiedersi cosa abbia mosso, in Davide Orecchio, la decisione di dedicarsi a riscritture del genere. Il fascino di quelle esistenze (inevitabilmente più marcato in alcune e meno in altre), senza dubbio, ma non può essere abbastanza. Poiché prima della scrittura viene un lavoro di ricerca formidabile, un lavoro certosino, da storico quale Orecchio – oramai da tempo direttore della rivista online della Cgil rassegna.it – d’altronde è, e allora nasce il sospetto che ci sia anche qualcos’altro, magari una sorta di piccola ossessione per l’esattezza impossibile della ricostruzione storica. Cominciare con in mano un lume a far da guida tra le tracce disseminate nei libri e nelle cose e finire lasciandosi trasportare dall’esigenza di narrare, incastonando ogni cosa laddove dovrebbe essere. E il sospetto è avvalorato proprio dalla qualità della lingua di Orecchio: eccellente. Straniante, incalzante, arcaica, sempre in equilibrio, a tratti nobilmente noiosa. Non ci sono molti scrittori, oggi in Italia, che scrivono così bene. Città distrutte è un libro insolito e bello, dunque, di forma e di sostanza.