Les Flaneurs su Città distrutte

Les Flaneurs, 22 aprile 2012
Luigi Loi, Tutte le città distrutte di Davide Orecchio

«Davide Orecchio ha già una consapevolezza fortissima della propria penna e stupisce che si tratti della sua prima prova narrativa. Ha da poco pubblicato Città Distrutte – Sei biografie infedeli per i tipi di Gaffi. Vi proponiamo questa intervista in cui gli domanderemo che cosa pensa sia una biografia e che cosa sia la fiction narrativa, ma sopratutto che cosa succede quando si mischiano questi due ingredienti nello stesso libro.

Citta distrutte è una raccolta di biografie, come recita il sottotitolo “infedeli”. Perché?

Sentivo il bisogno di denunciare il carattere fittizio, letterario, dei testi raccolti nel libro. In un primo momento era proprio “fittizie” l’aggettivo che avevo scelto. Ma “infedeli” mi è sembrato più bello; ed evocava, inoltre, i diversi livelli di tradimento. Il vissuto reale viene tradito in nome di un vissuto falso o inventato. Il genere e lo strumentario storiografico subiscono un “sorpasso sleale” da parte della narrazione di fantasia. L’autore stesso tradisce (o rinuncia a) la sua identità di storico per dare voce a un altro sé. Insomma, un bell’elenco di infedeltà.

Il filone delle biografie verosimili si ascrive a quel genere sublime che nasce col Lazzarillo de Tormes e che ritroviamo nel ’900 con Borges. Quali sono le motivazioni che ti hanno portato a scegliere un genere così difficile e ambizioso piuttosto che un tipo di narrazione classica?

La scelta di scrivere questo libro nasce dal desiderio di sperimentare una forma di meticciato tra narrativa e saggistica. Ma viviamo nel secondo millennio e qualsiasi genere di sperimentazione ha una tradizione di riferimento. Quindi non credo che sarei arrivato a scriverlo se prima non mi fossi nutrito di certe opere di Sebald, Pitol, Bolaño o Kiš. Senza dimenticare il Borges da te già citato. Il clima è questo. I modelli letterari sono espliciti. Sull’ambizione non so. La verità è che nello scrivere i testi mi sono trovato subito a mio agio nel genere, come quando da bambini si scopre una vocazione per uno sport. Credo dipenda dalla mia ambivalenza tra una formazione di storico e una vocazione di scrittore. Avevo una costellazione di storie, un repertorio di documenti e fonti sul quale è stato quasi naturale intervenire.

In Città distrutte ho dovuto (o voluto) affrontare un problema estetico dal quale poi si è generato un problema etico riguardo al vero e al falso di quanto stavo scrivendo. Non so se i problemi li abbia risolti o no. Ma la questione era questa. Lo storico punta a far emergere una verità dalle fonti che ha consultato. È un obiettivo sublime, senza dubbio, ma comporta un enorme sacrificio estetico che costringe a esporre ogni causa, ogni effetto, senza trascurare i dettagli anche più prosaici. La verità dell’accaduto comanda lo stile, si nomina da sé, sceglie essa stessa le parole, il ritmo, la frase. Nella scelta di scrivere biografie infedeli, invece, la narrazione prova a nominare la realtà, prova a decidere che ritmo e direzione debba avere l’ordine degli eventi (seppure in parte falsi e inventati). Da un atto di disubbidienza rispetto a fatti, nomi, azioni, documenti emerge il desiderio di non soccombere alle regole della realtà, di superare il perimetro del reale per tracciarne uno nuovo. Poi ti capita anche di arrivare a una qualche verità dicendo bugie.

Una ragazza di Buenos Aires, un militante comunista meridionale, un regista russo, la storia della poetessa Betta Rauch e ancora altri personaggi e altre voci. Chi sono questi personaggi?

Sono tutti personaggi che vanno all’arrembaggio della vita, forti di una propulsione esistenziale che poi, superato un climax, decade, si stempera per effetto di delusioni, senilità o, più spesso, a causa dell’impronta violenta della Storia.

Alla fine di ogni capitolo delle note mostrano cosa c’è di storico e cosa è inventato nel tuo libro. Eppure il dubbio è ormai inoculato nel lettore. Da dove nasce la forza letteraria di questo continuo passaggio dal respiro romanzesco alla testimonianza più strettamente storica?

Be’, se ci sia o no una forza non posso essere io a dirlo. A mio parere, però, la fonte, la citazione, il lacerto che emerge da un archivio o il passo di un libro, che siano essi veri o falsi non importa, hanno un forte impatto sulla pagina scritta. A queste citazioni e incisi dei quali riempio le biografie assegno indubbiamente una funzione letteraria. Interrompono il racconto dando sostanza a questo o a quel passaggio, oppure suffragano e rafforzano il racconto stesso. Mettono al mondo una terza persona potenziata. L’autorevolezza della fonte, del documento che dice al lettore: “Questa storia è andata così e tu devi credermi”. Poi, ripeto, non importa se la fonte sia vera o falsa. L’importante è che legittimi in quel momento, in quel punto, la narrazione e dia consistenza, spessore, dimensione alla scrittura.

Quasi tutti i tuoi personaggi vivono nel ’900, conoscono il fascismo, il comunismo, la guerra fredda, il movimento del ’68. Il perché di questa ambientazione?

Quando studiavo storia facevo di tutto per tenermi lontano dalla contemporaneità. Avevo paura dei suoi tranelli, delle scelte anche ideologiche alle quali ti costringe sempre. Preferivo occuparmi più “comodamente” di Settecento e Ottocento. Ma ero anche giovane, forse un po’ impaurito dal mondo che cambiava (il crollo del Muro, la fine del comunismo ecc.). Non è comunque un caso che abbia scritto del secolo passato in un lavoro letterario e non scientifico. Il punto è che gli stupri collettivi, i massacri antropologici e i vizi ideologici del secolo breve (il secolo del nazismo, del fascismo, dello stalinismo) suscitano una rabbia che si può esprimere a stento in una dimensione saggistica. E poi, naturalmente, la tesi della “città distrutta”, risultato e macerie dello scontro tra individuo e storia, funziona più che mai nell’ambito del Novecento.

Uno dei problemi più difficili per un narratore è quello di non infatuarsi dei propri personaggi per poterli descrivere al meglio, con maggiore spessore, con verosimiglianza. Nel continuo valzer tra reale e fittizio che è presente in queste sei biografie, come hai trovato la giusta distanza, il giusto punto di osservazione?

Per me è diverso. La questione si capovolge proprio. Nel senso che non potrei scrivere di una persona o personaggio per il quale non provassi amore ed empatia. Il distacco stilistico, nel caso di Città distrutte, è venuto dopo, consentito dalla forma biografica o pseudo biografica che aiuta una certa severità. Però non in tutte le pagine del libro si avverte questa severità. Al contrario, non mancano momenti di sintonia completa tra me e i personaggi.

Nel tuo futuro di narratore ci sarà ancora spazio per questo tipo di eroi o sposterai il focus altrove?

Ci sarà spazio con le opportune variazioni, perché non si può replicare lo stesso modello né scrivere due volte lo stesso libro. Quasi certamente ritornerò su Pietro Migliorisi, sempre adottando la formula biografica. Ma – e questo vale anche per altri progetti che ho in cantiere – modificherò la ricetta della mia cucina: la dose documentale diminuirà e le porzioni d’invenzione aumenteranno.