Esattamente 10 anni fa, di questi tempi, concludevo la stesura di un manoscritto che s’intitolava Città distrutte, e iniziavo a mandarlo in giro. Senza immaginare che avrebbe atteso 4 anni la pubblicazione. In realtà senza immaginare nulla di nulla.
Fu un inverno da covo. Anche la mia compagna lavorava a una ricerca e quel gennaio, quel febbraio, uscimmo poco la sera. Ripresi a suonare la chitarra, imparai le accordature aperte, guardavo film di Hitchcock e concerti dei Radiohead. Ero abbastanza felice. Avevo messo il tempo in letargo: è un evento esistenziale rarissimo che si giova del non avere progetti né malattie, e del godimento di musica, cinema, letteratura. Necessita pure di un’inclinazione domestica, casalinga; o dell’esatto contrario: star sempre fuori di casa, vivere i giorni esternamente.
L’evento domestico non può che accadere a gennaio, a febbraio. Con buona pace dell’homo faber, il letargo del tempo è bellissimo. Il silenzio delle ambizioni. La sedazione dell’io. Ogni attesa indossava lo stesso abito: il golf coi buchi sul gomito, i calzoni sbiaditi; è il dress code per partecipare alla serata “uscire dal secolo”. Serve una persistenza nel non dare appuntamenti a sé stessi, prima che agli altri. L’unico obbligo è nutrirsi (e non solo del cibo), abbeverarsi (e non solo dell’acqua).
Non voler essere nessuno, e non esserlo.
Sotto casa, all’altezza dell’asfalto e delle zanelle, dei cerchioni, dei contatori del gas, delle radici dei pini, delle pigne scorticate, dei peli di gatto, delle monete perse, lì dove respirano i neonati nei passeggini, e dove si fermano a riposare le nonne quando si piegano, dormiva una creatura sfrattata e letargica: era il mio calendario, ma non era più mio, e io non ero più suo.