«Come d’aria», il libro stoico di Ada d’Adamo

«I don’t see the point of privacy.
Or rather, I don’t see the point of leaving testimony in the hands or mouths of others.»
Harold Brodkey, This wild darkness

Scorre da decenni nella letteratura occidentale – diciamo dal tardo Novecento a oggi -, una corrente memorialistica, intima, per quanto possibile onesta che dà voce al racconto autobiografico della malattia, a volte propria, a volte di una persona cara e amata. Forse dovrei precisare che questa voce nasce da un bisogno, nella psiche e nel corpo, di tirare fuori il dolore da sé, di renderlo altro da sé, esterno nella pagina scritta, enunciato, procreato, partorito ottenendo un lieve, per quanto illusorio, distacco. Oppure il bisogno è di lasciare una testimonianza, la propria, quindi disintermediata rispetto a qualsiasi eredità testimoniale raccolta da altri.

In alcuni casi può essere una letteratura esibizionista, spudorata e violenta; in altri casi – la maggior parte, nella mia esperienza di lettore – invece tutto il contrario: le narrazioni crescono attorno a uno stile casto, contenuto, stoico nell’esposizione di una sofferenza accettata e tollerata. Qui lo stoicismo mi sembra duplice: nell’esperienza che si è vissuta sopportandola, e nella prosa che si adotta per raccontarla.

Cosa intendo con “prosa stoica”? Non sono un critico né un esperto di questa narrativa, ma l’impressione che mi sono fatto è di uno stile – anzi di un insieme di stili personali – che trova nella misura e nel controllo la migliore, forse l’unica possibilità di esporre tanto, troppo dolore. Ma non siamo all’esito di un’autocensura, di un freno espressivo, quanto al risultato della condizione nella quale si trova il narratore, essere umano andato troppo in là nell’esperienza del male. Tanto in là dal ritrovarsi in solitudine in terra incognita, e dal provare rispetto al proprio dolore non distacco o apatia, ma un nuovo grado di tolleranza quasi impavida, e certamente fatalista.

La pagina, quindi, è quasi sempre calma, densa di una tranquillità che sbalordisce il lettore in ragione di una storia invece feroce. In quella calma e misura sta il segreto di una forza: la resistenza. Ed è una calma lucida, una tessitura di parole precise, un periodare che arriva da un luogo lontano, là dove solo il narratore, il sofferente, è approdato; di laggiù il narratore si rivolge al lettore.

Perché questi libri sono in genere indimenticabili sul piano della loro ricezione? Perché propongono a un lettore verosimilmente, ipoteticamente sano l’anticipazione del suo futuro, la prossima, inevitabile, condizione di malattia, cura o lutto; oppure perché risvegliano una sofferenza già patita, e ora condivisibile nell’atto della lettura.

C’è insomma una forma di eroismo in questi libri, e scaturisce dal ricordarci che la malattia fa parte della vita, sebbene noi facciamo di tutto per dimenticarlo, assecondati dal falso vitalismo della nostra “civiltà” mercatista.

Io ne sono da sempre un lettore, sebbene in fasi intermittenti e che coincidono con le mie stesse condizioni morali e fisiche. Il primo testo del genere nel quale mi sono imbattuto, moltissimi anni fa, è Un’oscurità trasparente di William Styron, fulgido resoconto di una depressione. Inizia così:

«A Parigi, nel 1985, in una gelida serata di fine ottobre, per la prima volta mi resi conto che la battaglia contro la malattia della mia mente, una battaglia che mi teneva impegnato da molti mesi, avrebbe potuto avere un esito fatale. Questa rivelazione mi colpì mentre l'automobile sulla quale viaggiavo percorreva una strada resa sdrucciolevole dalla pioggia, non lontano dagli Champs-Élysées, e passava vicino alla luce smorta di un'insegna al neon che recava la scritta "Hôtel Washington"».

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Da allora ho letto molti altri testi che non sto a elencare. In genere opere di autrici e autori affermati, indotti ad aprire una parentesi patografica nel proprio cursus letterario. Ma non avrei mai immaginato che questo elenco di letture si sarebbe arricchito di un nuovo “manuale di vita”: un’opera intensa e commovente – che in parte rientra nella categoria di cui sopra, e in parte fa storia a sé – scritta, però, non da una persona a me estranea ma che, al contrario, conosco bene.

Come d’aria di Ada d’Adamo è uscito per le edizioni Elliot da poco meno di un mese, a inizio gennaio 2023. È la storia di Daria e Ada, di una figlia e di una madre. Di una splendida bambina – Daria – nata con una grave malformazione che la farà soffrire dal primo giorno di vita, e la costringerà a innumerevoli operazioni chirurgiche e a uno sviluppo psicofisico sabotato. Una “bambina” che ora è entrata nel suo diciottesimo anno d’età, non può camminare, non riesce a parlare, eppure miracolosamente, magicamente, comunica, ama ed è riamata.

Ed è la storia di una madre – Ada –, studiosa di danza, esperta di corpi e movimenti, costretta a confrontarsi con un corpo che non sa proprio coordinarsi, quello di sua figlia. Una madre abbandonata da una casta medica glaciale, indifferente. Una donna che dal primo giorno di vita della figlia impara a prendersi cura di lei senz’altri strumenti se non il proprio amore e l’ostinazione di accudire e proteggere, poco o per nulla sostenuta da un’architettura sociale inadeguata, ma intensamente aiutata e “portata” da un compagno, il padre di Daria, che diventerà poi suo marito – Alfredo –, e dall’affetto di un gruppo di amiche intime e vicine.

La storia sarebbe in fondo “solo” questa, pagina pari dopo pagina dispari, e avanti per altre pagine e anni, la storia di due vite resilienti (aggettivo abusato ma in questo caso ci sta). Se non fosse che l’ingiusta ed estrema sfortuna di Ada (e Daria) si perpetua nella diagnosi di un tumore al seno che Ada riceve pochi anni fa e che la porta oltre la soglia del sopportabile, in quel territorio, che provavo a descrivere sopra, dove l’aria si rarefà e il senso delle cose, se un senso c’è, prende una luce diversa.

Ora la donna che cura deve anche curarsi. La madre che accudisce dev’essere anche accudita. Le sue forze fisiche vengono meno. Ma emerge una forza spirituale che mi pare incandescente e incapace di essere sconfitta. Sospetto, ma potrei anche sbagliarmi, che l’origine del libro sia proprio in quel cancro. Che venga da lì l’esigenza del racconto. Come se Ada avesse pensato: “Adesso ve lo dico io com’è andata. Questa è la nostra storia. Nessuno a parte me ha il diritto di raccontarla”.

Quanto scrivevo sopra sullo stoicismo dello stile, spero in modo non del tutto inesatto, non mi era mai venuto in mente sinora, è stata proprio la lettura di Come d’aria a suscitarlo. È davvero un testo prodigiosamente dotato di una calma profonda. Ada sta camminando in territorio inesplorato ed è molto saggia, ne sa più di tutti noi messi insieme. Del resto lei stessa in più brani rivendica apertamente questa condizione quale principio di autodeterminazione. Ad esempio qui (una pagina tra le tante):

«Ho il cuore di pietra. Sento che nulla mi tocca. Che potrebbe succedere qualsiasi cosa e non mi sposterebbe neanche di un millimetro da questo mio stato. Forse troppe cose sono successe già, e allora non ho più paura di nulla».

Ma Come d’aria non è affatto una storia di dolore senza riscatto. Al contrario, è una storia d’amore. La storia di una vita – anzi due, anzi tre –, colma d’amore anche nella malattia, anche nella difficoltà di una condizione umana bersagliata dalla cattiva sorte. È un resoconto della gioia di vivere, della felicità nell’infelicità. Anche a queste altezze, dove l’ossigeno sembra mancare e la vita deve lottare per durare, può fiorire in paradosso molta bellezza:

«Desideravo la bellezza, l'ho detto. E tu, a dispetto degli occhi molto ravvicinati e delle sopracciglia unite, nonostante lo strabismo e la microcefalia, sei sempre stata una bella bambina. Si può dire che la bellezza sia stata insieme la tua condanna e la tua salvezza. Forse se avessi avuto qualcuna delle orrende malformazioni del volto assai comuni nell'oloprosencefalia, l'ecografia morfologica l'avrebbe rilevata e tu non saresti mai nata. Insomma, si potrebbe quasi dire che sei venuta al mondo in virtù della tua bellezza: esisti perché sei bella. Una volta nata, poi, il tuo aspetto grazioso ti ha tenuto al riparo da quella sgradevolezza che molto spesso si associa alle persone disabili, suscitando in chi le guarda un senso di disagio, quando non di autentico fastidio. È dura da ammettere, ma seguendoti nella tua giovane vita ho capito che esiste una disabilità "bella" e una disabilita "brutta", e che anche in questo "mondo a parte" le persone - dagli sconosciuti, ai terapisti, ai medici - subiscono il fascino del bello, proprio come avviene nel "mondo normale".
All'inizio questo mi infastidiva, mi domandavo se fosse giusto che gli altri si avvicinassero a te solo perché sei bella. Ma poi in quel "solo" ho trovato il senso più nobile e profondo della parola bellezza. Ho pensato che ciascuno di noi riceve almeno un dono dalla vita e che, nella sfiga generale, tanto vale approfittarne. 
Desideravo la bellezza e l'ho avuta: ho avuto te».

Chiudo qui questi appunti scritti di notte, nel luogo raccolto di un blog personale. Ho scritto in modo confuso e impreciso, forse per l’affetto che mi lega a questo piccolo gruppo di persone.

Aggiungo solo un’ultima cosa.

Mi è parso di cogliere in alcune pagine di Ada un rammarico, una spossatezza per la tanta fatica di questi anni, mentre tutti gli altri andavano avanti e si facevano “vite normali” e “famiglie normali”. Ma io, ogni volta che li ho visti – Ada, Daria e Alfredo –, li ho visti come la famiglia più unita e innamorata che abbia mai conosciuto.

Come d’aria racconta anche questo: l’edificazione di una famiglia incredibilmente unita e innamorata.

Una famiglia come nessun’altra al mondo.