«Una sera Matilda e Tonja stanno alla finestra e parlano sottovoce. Di nuovo manca la corrente e nella stanza arde solo la fiamma vacillante di una lampada a petrolio. Da lontano si odono degli spari. “Pregate, bambini”, dice Matilda “pregate che non vengano gli uomini cattivi”. […] Poco dopo qualcuno cerca di sfondare la porta di casa. È di quercia massicia, ma la violenza dei colpi non lascia dubbi sul fatto che i cardini non terranno. Matilda apre. Due uomini in abiti civili, armati di fucili, baionette e pistole, si precipitano dentro. Bestemmiando aggrediscono Matilda e pretendono soldi, oro, brillanti. Matilda afferma di non avere più niente, giura che le hanno già portato via tutto, ma naturalmente non le credono. Gli uomini mettono sottosopra la casa, in cantina aprono le conserve con le baionette, convinti che vi si nascondano dei tesori. Non trovando nulla, si arrabbiano sempre più. “Dormite, bambini, dormite” dice alla fine uno di loro, e ordina a Matilda di mettersi al muro. Poi le punta contro la pistola. Matilda non dice una parola, non grida, non si ribella, si limita ad avvolgersi in uno scialle di lana, si accosta alla parete e guarda oltre le teste degli uomini, in lontananza.
L’isola di Kalief è un libro illustrato per bambini dagli otto anni in su, pubblicato da Orecchio Acerbo a marzo 2021. Il libro, per il quale ho scritto la storia, nasce da un’idea di Fausta Orecchio, e ha preso vita grazie alle illustrazioni di Mara Cerri. Ho sempre ammirato da lontano il lavoro di mia sorella e dei suoi compagni di avventura in Orecchio Acerbo, ma l’idea di lavorare a un libro con loro non mi era mai venuta in mente. Qualche anno fa se n’è iniziato a parlare. Fausta accennò alla storia di Kalief Browder. Mi chiese di guardare un documentario (Time: The Kalief Browder Story, Netflix 2017) su questo ragazzo coraggioso e sfortunato. Disse che dovevamo fare un libro su di lui. Disse che era un eroe e i bambini lo avrebbero amato. Dopo aver visto il documentario e approfondito la sua storia, anche io mi convinsi che Kalief fosse un eroe. Ma la storia era così straziante, così ingiusta. La storia conteneva tutte le ingiustizie e la violenza che un ragazzo potrebbe subire, e tutto il coraggio che un ragazzo potrebbe trovare dentro di sé.
Kalief Browder (1993-2015) era un giovane del Bronx, un quartiere di New York. Nel 2010, a 16 anni, fu arrestato per il presunto furto di uno zaino. Kalief rifiutò di dichiararsi colpevole, perché non lo era. Nei tre anni successivi fu detenuto nel penitenziario di Rikers Island senza ottenere un processo. Rimase in isolamento per circa due anni, e per trecento giorni consecutivi. Le Nazioni Unite definiscono “tortura” qualsiasi periodo superiore a quindici giorni consecutivi trascorsi in isolamento.
TRE ANNI IN PRIGIONE. PER IL FURTO DI UNO ZAINO. CHE NON AVEVA RUBATO.
Pensai: “Un libro per bambini? È impossibile”.
Ma forse mi sbagliavo.
Cercai di trovare una chiave. Mi venne in mente l’idea di una bambina del futuro, che abita un tempo e una città resi migliori dalla battaglia di Kalief. E che racconta la storia del ragazzo coraggioso. Forse, in questo modo, i bambini avrebbero potuto innamorarsi di un eroe.
Spiega l’editore nella sua sintesi del nostro lavoro:
“Tutto è già successo. Rikers Island era una prigione grigia e la città puzzava di gas: quello era il tempo di Kalief. Il tempo in cui fu accusato di aver rubato uno zaino che non aveva rubato. A raccontare la sua storia è una bambina che, in un futuro lontano, vive felice in quella stessa isola, così diversa da prima: piena di colori e piante mai viste. Kalief come molti altri afroamericani, finì ingiustamente in quella prigione. Niente processo, solo violenze e solitudine. Liberato per mancanza di prove, continuò a professarsi innocente e diventò un simbolo di riscossa che, racconta la voce narrante della bambina, mise fine a quell’orrore. L’isola nella sua nuova bellezza porta il suo nome, perché è stata la sua forza a cambiare le cose. Nella realtà, anche se Kalief non ce l’ha fatta, grazie alla sua lotta, nel 2014 il regime di isolamento per i minori è stato abolito, e nel 2026 è prevista la chiusura definitiva della prigione di Rikers”.
Kalief era afroamericano. Subì una violenza sistemica, razzista e classista. Che un bianco, italiano, come me potesse comprendere fino in fondo la sua pena e raccontarla è quantomeno, eufemisticamente, “complicato”. Mi rendo conto delle difficoltà. È un abisso che sarebbe sovrumano, e presuntuoso, colmare. Credo solo – e lo scrivo con tutta l’umiltà possibile – che un editore, un’artista e un autore abbiano il diritto di raccontare una storia nella quale credono. L’unico e ultimo metro di giudizio è la critica del lavoro compiuto.
Per tutti noi quello che contava davvero era rendere omaggio a Kalief e alla sua battaglia. Una battaglia che non finisce. Akeem Browder, fratello maggiore di Kalief, si è preso sulle spalle l’eredità morale e politica lasciata dal fratello: è il presidente della Kalief Browder Foundation, un’associazione senza scopo di lucro da lui fondata per «cambiare il modo in cui sono visti i giovani di New York, prevalentemente afroamericani e provenienti da quartieri poveri, privati dei diritti civili. L’associazione si impegna a insegnare la consapevolezza socio-emotiva ai giovani colpiti da traumi e considerati “a rischio” dagli standard di New York».
Due sindacati italiani, lo Spi Cgil (pensionati) e la Filcams (servizi) il 3 aprile 2020 hanno lanciatouna campagna per badanti, colf, babysitter: chiedono che anche queste lavoratrici siano incluse nel perimetro delle tutele elaborate dal governo coi suoi decreti, e dalle Regioni e dai Comuni. Stiamo parlando del dovere di proteggere la salute e il reddito di centinaia di migliaia di persone, l’88% donne, danneggiate dal lockdown e dalla pandemia Covid-19. Quindi, per dirla semplice: servono mascherine, soldi, ed emersione dal nero. Da Rassegna, dove ho scritto un pezzo al riguardo, riprendo quello che mi hanno raccontato due di loro, Mayda e Munara.
Mayda è cubana. Da circa trent’anni vive in Italia, a Roma. Ha la cittadinanza italiana. Per anni si è occupata delle case degli italiani e dei loro nonni, accudendo gli spazi e gli oggetti, curando le persone. “Sono sempre stata precaria”. Ma coi contributi era in regola. Adesso la quarantena sua personale e collettiva dovuta al Covid-19 la sta privando del lavoro e del reddito.
“Ho perso il lavoro a febbraio – racconta -, lavoravo come badante per una signora di 93 anni. Dodici ore per circa 300 euro a settimana. Ho chiesto subito l’assegno di disoccupazione ma, secondo lei, quanto riceverò? Dai conti che mi sono fatta dovrei avere 150, 170 euro. Se va bene. Ho visto una cifra simile accreditata sul mio conto corrente a marzo. Forse è già il mio assegno. Non lo so. Ma come ci pago l’affitto? Come ci faccio la spesa? Ora che anche mio marito è disoccupato?”.
“Anche mio marito è disoccupato. Lavorava in servizi di facchinaggio. Pure lui precario, come me. Licenziato, come me. A febbraio, come me. Ci è accaduto tutto simultaneamente. Ci facciamo forza e compagnia. Siamo qui, chiusi in una casa di cui non sappiamo come pagheremo l’affitto. Secondo lei quanto possiamo andare avanti in queste condizioni?”.
Altre preoccupazioni si aggiungono dai paesi di origine, dalle madri che Mayda e il suo compagno hanno a Cuba e in Venezuela:
“Sono disperate, non possiamo più mandare loro quei cinquanta, cento euro al mese che erano indispensabili per vivere”.
Munara, 32 anni, kirghisa. Vive in Italia da dieci anni. A Napoli. Ha una figlia di due anni e mezzo.
“Sono ragazza madre – racconta -. A causa del Coronavirus ho perso metà del mio lavoro. Mi hanno detto: ‘Ci sentiamo quando finisce tutto’. Mi è rimasta l’altra metà: il lavoro al mattino, di quattro ore, presso una signora anziana disabile, sulla sedia a rotelle. Mi occupo di lei e del marito, faccio la spesa, cucino. Questa signora è fortunata perché a gennaio mi ha fatto il contratto, prima della quarantena. Senza un contratto regolare di lavoro non potrei uscire di casa tutti i giorni, mi farebbero la multa. Cerco di non prendere l’autobus perché ho paura. Quindi, a piedi, andata e ritorno sono quasi due ore di viaggio. Certo sto rischiando di prendere il virus, ci penso ogni giorno che esco. Ma cosa devo fare? Indosso guanti e una mascherina che mi sono cucita da sola, e quando torno a casa la lavo. Le mascherine chirurgiche non le ho trovate. Un giorno ho detto alla signora che non potevo andare, perché temevo di contagiare mia figlia, e lei si è messa a piangere: ‘Se non vieni, io come faccio?, chi mi aiuta?’”.
In Italia sono due milioni le persone impiegate in lavori di cura, e solo 860mila di loro sono in regola, iscritte agli elenchi dell’Inps. Il decreto Cura Italia di marzo non le include negli aiuti economici. Il prossimo decreto, atteso intorno a Pasqua, dovrebbe farlo. Ma nel governo e nella maggioranza ancora si discute il come. L’ipotesi più forte è quella di istituire un Reddito di emergenza che copra anche le categorie escluse, e quindi le badanti.
Un pacchetto lavoro da 15 miliardi, incluso il Reddito di emergenza da 3 miliardi per 3 milioni di persone, poco più di 1 milione di famiglie, senza alcuna fonte di sostentamento. Il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo (M5S) punta a rafforzare i sussidi ai lavoratori senza lavoro nel prossimo decreto Aprile, previsto per Pasqua o subito dopo, non oltre la metà del mese. E a parametrarli con il quoziente famigliare. Diversi i punti allo studio. Allungare la Cassa integrazione che ora copre solo 9 settimane. Prorogare l’indennità da 600 euro di marzo per gli autonomi anche in aprile e maggio, alzando l’importo a 800 euro. Istituire il Rem, un Reddito di emergenza o di ultima istanza per chi è senza lavoro e senza protezione: badanti, colf, babysitter, intermittenti, a termine, precari, ex disoccupati al termine della Naspi.
Spero che facciano in fretta. Queste persone, abituate loro ad aiutare gli anziani, devono essere aiutate subito.
«La nudità. Conservo un ritaglio del Nouvel Observateur dell’ottobre 1993; è un sondaggio: hanno inviato a milleduecento persone che si dichiaravano di sinistra un elenco di duecentodieci parole, e loro dovevano sottolineare quelle di cui subivano il fascino, quelle a cui erano sensibili, che trovavano attraenti e simpatiche; qualche anno prima era stato fatto lo stesso sondaggio: a quell’epoca, fra le stesse duecentodieci parole, ce n’erano diciotto sulle quali le persone di sinistra si erano trovate d’accordo, confermando così l’esistenza di un comune sentire. Oggi le parole amate si sono ridotte a tre. Solo tre parole su cui la sinistra può trovarsi d’accordo? Che tracollo! Che declino! E quali sono queste tre parole? Sentite qua: ribellione, rosso, nudità. Ribellione e rosso sono un’ovvietà. Ma che al di là di queste due parole l’unica a far battere il cuore della gente di sinistra sia la nudità, che l’unico patrimonio simbolico comune sia ormai la nudità, è stupefacente. È questo dunque il solo retaggio di duecento magnifici anni di storia, solennemente inaugurati dalla Rivoluzione francese, è questo retaggio di Robespierre, di Danton, di Jaurès, di Rosa Luxemburg, di Lenin, di Gramsci, di Aragon, di Che Guevara? La nudità? Il ventre nudo, i coglioni nudi, le chiappe nude? È questo l’ultimo vessillo all’ombra del quale gli estremi drappelli della sinistra simulano ancora la loro grande marcia attraverso i secoli?».
Milan Kundera, La lentezza, Adelphi, Milano 1995, pp. 115-116 (trad. Ena Marchi).