Due libri che ho letto

Di recente ho letto due libri diversamente notevoli.

Il primo, in ordine di tempo (di lettura), l’ha scritto Riccardo Staglianò: Lavoretti (Einaudi). Su sharing economy, Uber e algoritmi.  A me sembra che, libro dopo libro, articolo dopo articolo, Staglianò stia facendo un lavoro davvero ammirevole e unico, perché parte da una consapevolezza, studio, sapere che altri giornalisti dei grandi media non hanno, salvo poche eccezioni. Gli ho inviato alcune domande, e ho pubblicato la nostra conversazione su Rassegna.it:

«Stiamo diventando “tutti più poveri”. È questo il sottotitolo di Lavoretti, l’ultimo libro (pubblicato da Einaudi a inizio 2018) di Riccardo Staglianò, giornalista del Venerdì di Repubblica, esperto di nuove tecnologie e, da diversi anni, molto attento alla loro relazione col mondo del lavoro. La sedicente sharing economy (economia della condivisione), foraggiata da piattaforme digitali e social media, elevata a mito e propaganda di vita negli anni dieci di questo secolo, altro non sarebbe che un sistema di redistribuzione di mansioni diminuite – “lavoretti” appunto – frantumate nel reddito, nella prestazione e nelle tutele. Un bel disastro, si direbbe, a scorrere i capitoli di questo saggio importante che ricostruisce le vicende dei protagonisti della storia, da Uber a Airbnb, passando per app e startup varie, alternandole ad analisi di lunga durata sulle ragioni economiche che dall’ultima parte del secolo scorso a oggi hanno determinato la situazione presente. Reportage, grido d’allarme, storia e riflessione, proposte concrete per uscire dall’imbroglio: è quanto troverete nell’opera. La conclusione (ultime pagine) può sembrare amara: “Non c’è più il futuro di una volta”. Ma Staglianò non rinuncia a sperare che un giorno la piattaforma comprenderà che il miglior lavoratore è il “lavoratore felice”. L’autore di Lavoretti ha accettato di conversare con noi intorno ai temi del libro».

Qui le domande e le risposte.

Il secondo libro è Giusto terrore di Alessandro Gazoia, pubblicato dal Saggiatore. Ho buttato giù alcune impressioni nello spazio web Extra dell’editore:

«Era prevedibile che, con Giusto terrore, Alessandro Gazoia ci offrisse un libro molto intelligente. Meno prevedibile era che questo saggio in forma di romanzo, o romanzo non fiction – ma è inutile cercare una definizione esatta perché si tratta di un’opera unica e quindi inclassificabile – esponesse il tema dei terrorismi, in una fitta rete di parentele e analogie che si estende dalle Brigate Rosse fino all’attuale estremismo di matrice islamica, recuperando e attualizzando la tradizione illuministica del conte philosophique.

Cosa significa? Provo a spiegarmi. I molteplici materiali del libro, le linee narrative e le riflessioni, le suggestioni, i dialoghi, le scene, i paesaggi, le storie passate e presenti, le geometrie della sua prosa, tutto, ma proprio tutto, ha una natura intimamente, consapevolmente “critica”. Gazoia ha un’inclinazione smagliante per il ragionamento, per la scrittura saggistica, ma in Giusto terrore piega le proprie qualità, o meglio le offre a un’intenzione letteraria che, però, si discosta anni luce dai modelli vigenti. È importante che un intellettuale italiano “entri” nel campo della narrativa, seminato a monocoltura di storytelling tecnico frammisto a vitalismo non riflessivo, decidendo di lavorare in modo diverso…

Prosegue sul sito del Saggiatore

 

(Immagine di copertina di Geralt)

Buon lavoro

Ho scoperto il valore del lavoro quando mia madre lo perse. La sua azienda chiuse. Prima di chiudere, l’azienda provò a salvarsi in molti modi. Uno fu organizzare una partita di calcio per raccogliere fondi. Allo stadio Flaminio. Parteciparono molti giocatori della Roma e della Lazio di allora. Vidi la partita in tribuna, come tutti i parenti di chi lavorava in quell’azienda. Ottenni un biglietto con gli autografi di Falcao, Pruzzo, Cerezo, Giordano, Laudrup. Ma Platini non c’era. Regalai gli autografi a un amico che tifava Roma.

Ma l’azienda chiuse lo stesso. Mia madre andò in disoccupazione. Per non farsi mancare nulla, lasciò anche il compagno. Non c’era famiglia, non c’era lavoro, non c’erano soldi – e compresi il valore del lavoro, cioè quando mancò misi a fuoco cos’era. Il lavoro. Il salario. L’identità di mia madre. Non conoscevo la parola precarietà ma già ne sapevo il significato.

Traslocammo in un ex portineria. Due camere e cucina. Due soppalchi. La mia camera divideva la parete con una lavanderia industriale. La forza delle centrifughe scuoteva le pareti. Il rumore delle macchine e delle centrifughe, dal primo mattino alla sera, sgretolava i pensieri e le parole. Studiare era difficile, per quanto m’importasse di studiare. Avevo una chitarra Eko e un amplificatore. La suonavo a un volume più alto del rumore che le centrifughe facevano. La suonavo contro le centrifughe.

La parola precarietà, che non conoscevo, era la casa dove vivevamo costretti. Mia madre comprò dei piatti da Oviesse (si chiamava così, non OVS). Mia madre comprò un tavolo di fòrmica, e pensili di fòrmica. L’unico essere libero della casa era la gatta. Saltava dalla finestra. Tornava incinta. Ingrassava. Partoriva. Di nuovo saltava dalla finestra.

Mia madre non parlava della disoccupazione, non creava allarmi nel figlio. Mia madre non parlava dei lavori precari, delle collaborazioni, dei contrattini che andava trovando, dei debiti.

Poi trovò un nuovo lavoro, fisso. Ci vollero anni. Ma ne uscì.

Lasciammo la portineria. Traslocammo in una casa migliore. Non smisi di suonare la chitarra ad alto volume, anche senza le centrifughe contro le quali suonare. Non smisi di ignorare la parola precarietà. Ma ne conoscevo il significato. L’avevo vissuto.

Tutto questo mi è tornato in mente perché volevo augurare, per il 2016, che non perdiate il lavoro, o che troviate lavoro. Un lavoro utile a voi e agli altri. Dal quale ricevere il meglio, dove poter offrire il meglio che avete. Non un lavoro inutile. Non un lavoro che massacri. Non un lavoro di soli ordini ed esecuzioni. C’è un mondo nuovo che nasce. Ha aspetti terribili. Gli anni del macello, della cattiveria sociale. I ricchi sono spietati contro i non ricchi e contro i poveri. Nel tempo dell’austerità prolungata, interminabile, i ricchi volano spietatamente sull’oceano dei poveri, degli impoveriti. Il lavoro perde il valore economico, non basta alla vita. La colonna portante industriale, o produttiva, o del lavoro per sé: si sgretola. La sostituisce un sistema di assenze, di sottrazioni. Se continua così, verrà il giorno che la vita dovrà sopravvivere senza lavoro, quando potrà. E nella riserva dell’estinzione, recintata dal ferro dei poveri, i viaggiatori, provenienti dall’autostrada dei poveri o dal mare degli impoveriti, verranno a vedere, in una teca, il lavoro.

Ma oggi sono ingenuo, chiudo gli occhi e per un momento auguro: buon lavoro. Buon lavoro lo stesso. Nonostante tutto, buon lavoro.

Ostinatamente, buon lavoro.

Lettera da un amico di mezza età

Un amico mi ha scritto una lettera:

«Caro Davide,
tempo fa un uomo è apparso sullo schermo del mio computer, nella colonna destra della bacheca Facebook, quella che sorveglia la mia età, i miei interessi, le pagine web che ho visitato e che mi porto appresso, gli acquisti che ho fatto o considerato. In effetti mi appare da giorni. Quest’uomo potrei essere io? Potrebbe essere uno come me? Immagino che l’algoritmo di Facebook lo ipotizzi. E vuole convincermi. In che modo? Mostrandomi che lui mi assomiglia ma è peggiore di me, leggermente. In effetti è più grasso e ha meno capelli, sorride infelicemente da una postazione d’ufficio: scrivania, computer, sedia ergonomica, camicia bianca e cravatta, le penne nel taschino, il mouse a portata di mano e a disposizione per il prossimo comando. Continua a leggere “Lettera da un amico di mezza età”

Il post del desiderio

Ho pubblicato su Nazione Indiana un articolo per il Primo maggio. Dove torno a parlare dei viaggi in Molise di alcuni anni fa tra contadini, braccianti, ottuagenari, centenari – i testimoni; custodi di scioperi alla rovescia, occupazioni di feudi e latifondi, scaramucce coi fascisti -, e di quello che mi sta capitando di recente.