Pasolini: nessuno di noi ha radici

1 luglio 1959
«Ho cenato con Pier Paolo Pasolini, per discutere sul romanzo Una vita violenta. […] Mi ha colpito come Pasolini fosse riuscito a raccontare le borgate romane dopo essere stato tanto intriso del Friuli. Dal dialetto romano al gergo romanesco. “Come hai potuto immedesimarti in due realtà tanto diverse? Quali sono le tue vere radici?”. La mia domanda prima lo diverte poi lo intristisce. Mi spiega con dialettica convincente tra paradosso e ragione che nessuno di noi ha radici. Quello delle radici è un luogo comune. “Nessuno di noi ha radici: chissà da dove veniamo. Le radici le germiniamo di giorno in giorno. Chi vive e non vegeta le getta rigogliose, chi non ama la vita le dissecca sul nascere. Io non mi sento radicato in nessun luogo, né a Bologna dove sono nato, né in Friuli dove ho conosciuto giorni chiari e altri scuri, né a Roma dove ora vivo. Mi affianco alle persone sapendo già che non sono legami eterni: cerco di serbare fedeltà all’intelligenza, questo conta per capire, per giudicare, per non essere sconfitto dalle illusioni. So bene che ritenere di avere il monopolio dell’intelligenza è deleterio. Nessuno è meno grande di chi si convince di esserlo. Partendo dalla realtà talvolta mi sbizzarrisco nell’utopia, ma so che devo tornare a terra e camminare tra cemento, fango e polvere”».

da Davide Lajolo, Ventiquattro anni, Rizzoli 1981, p. 288.

Morti rosse

«Ecco, proprio i fatti di Praga hanno certamente avuto un peso anche contro il fisico di Longo. Non c’è dubbio che i malori vengono quando vogliono, ma è scientificamente provato che il grande lavoro portato avanti per anni in condizioni aspre com’è sempre l’attività politica clandestina o no, in galera o sui sentieri partigiani, segna il fisico. Ma certe malattie, come quella che ha colpito Longo, sono anche determinate dagli stress dolorosi, dal dovere assumersi responsabilità fuori del comune ed è senza dubbio il caso di Longo.

Rivedo Giuseppe Di Vittorio impallidire sul balcone

[…] Ricordo Ruggiero Grieco, una delle menti più lucide del partito, nei suoi ultimi giorni di vita dopo che l’aveva fulminato l’attacco cerebrale durante una serie di comizi in Romagna; rivedo Giuseppe Di Vittorio impallidire sul balcone di Lecco mentre parla ai “fratelli lavoratori” (non solo amicizia ma addirittura vera fraternità) e poi, a poche ore di distanza, la sua morte; ricordo Mario Alicata intrepido e battagliero talvolta persino al di là degli argini, stroncato in un istante. E tutti ricordano la fine di Togliatti davanti alle pagine amare del memoriale di Yalta, rivelatrici oltre che della sua straordinaria intelligenza politica, anche del suo umano tormento per dover dire cose che avrebbero turbato l’animo semplice di molti militanti.

Ora il malore aveva colpito Longo mentre erano ancora vive le polemiche in campo internazionale e nel partito per quella decisione presa sui fatti di Praga…»

Davide Lajolo, Finestre aperte a Botteghe Oscure. Da Togliatti a Longo a Berlinguer. Dieci anni vissuti all’interno del PCI, Rizzoli, Milano 1975, pp. 106-107.