
Se voglio tornare a casa, devo passare per Castro Pretorio. La via, il viale, e viale Pretoriano. Ogni giorno. Un tempo mi circondavano decine di alberi alti e malati, però non badavo mai a loro. Al riparo della solitudine attutita del mio casco, nel raggio dei fari di macchine altrui e sotto il lume dei lampioni, non mi accorgevo che di auto e semafori.
In un vecchio articolo su internet ho trovato il nome di quegli alberi. Si chiamavano sofore e ho l’impressione che le abbiano abbattute quasi tutte, perché ora, conficcate ai margini della strada, vedo altre piante giovani e gracili.
Dunque ero accanto a una fila di sofore malate, poggiavo il piede per terra e aspettavo il verde del semaforo, il giorno che l’anatra cadde dalle nuvole. Precipitò come un missile candido dalla punta gialla, nello spicchio destro del mio sguardo: perpendicolare, veloce, da un ramo di sofora o forse dal cielo dentro al quale stava migrando.
Fece un rumore di involucro di cartone che sbatte e si squarcia: il cozzo sul marciapiede del suo becco o della sua scatola cranica. Qualcuno ha mai visto un uccello precipitare dal cielo? È un altro mondo che s’intromette nel tuo, abituato a trapassi ospedalizzati o senili.
Era già morta prima dello schianto? Immaginai di sì. Un passante e io la guardammo atterriti: inerte sull’asfalto, bianca, elegante nel suo collo inclinato. Aveva negli occhi il taglio di due fessure nere, che sembravano il nero addomesticato del riposo. E appariva anche intatta. Tutt’al più un’anatra con le pile scariche. Invece era un’anatra morta. Sotto le piume il suo corpo era sottosopra e nessuno l’avrebbe aggiustato mai più.