Rendiamociconto 16 giugno 2012
Tarcisio Tarquini, Su “Città distrutte” di Davide Orecchio
Che Davide Orecchio abbia scritto un gran libro e che, perciò, il premio Mondello conferito a Città distrutte (Gaffi editore) sia stato più che giustamente assegnato non sono certo io il primo a dirlo, anche se ci tengo a rivendicare pubblicamente il merito (tutto privato, naturalmente) di aver seguito la gestazione di questi racconti e, per quanto è potuto valere, di aver incoraggiato l’autore di fronte ai dubbi che sempre spuntano a un certo punto della fatica e perciò una rassicurazione può placare l’ansia, il timore di non essere pari alla prova.
Della scrittura di Città distrutte oggi si è letto sui giornali, e ascoltato dalla bocca dei prestigiosi studiosi e scrittori e scrittrici che ne hanno scritto e parlato, che (vado a memoria e se gli aggettivi non sono proprio questi, il senso lo è) è splendida, rozza e raffinata insieme, originalissima, anacronistica eppure nuovissima, e così via. Eppure è proprio questa scrittura che sta alla base della difficoltà che il libro ha incontrato nel trovare una casa editrice disposta a rischiare su di esso. Non è un caso che a riscattare questa vicenda critica dai suoi vistosi errori di supponenza e ottusità sia arrivato, alla fine, in qualità di uno dei tre giurati che hanno deciso l’assegnazione del Premio Mondello, uno scrittore come Emanuele Trevi che molto ha spiegato (nel suo Qualcosa di scritto, con merito finalista del Premio Strega) su come si confezionino i romanzi e i casi letterari nei nostri tempi, dominati dalla dittatura mercantile di editori che trovano nella spregiudicatezza semplificatrice delle loro redazioni i creatori della sola koinè che viene ammessa all’onore della pubblicazione e distribuzione nei circuiti maggiori.
Il libro di Davide Orecchio è stato rifiutato da diverse case editrici di nome, nei cui cataloghi si affollano opere che davanti a Città distrutte possono solo arrossire dalla vergogna: una storia di silenzi, mezze parole, riconoscimenti privati e disconoscimenti pubblici interrotta solo quando, per la battagliera onestà dei critici e scrittori di Nuovi Argomenti e, in particolare, di uno dei direttori Raffaele Manica e, successivamente, dello scrittore Andrea Carraro, il testo dei racconti è arrivato a un piccolo (ma perché?) editore altrettanto coraggioso come Gaffi e finalmente è stato pubblicato, incontrando – dopo un po’ di tempo e per l’autorevole segnalazione di Daniele Giglioli, sul supplemento domenicale del Corriere della Sera, il pubblico e il successo dovuti.
Fare il nome delle case editrici omissive? A che servirebbe? Le vicende editoriali dei grandi libri sono piene di rifiuti come quelli patiti da Davide Orecchio; non capita quasi mai (oggi certamente mai) di trovare un Mondadori che aspetta venti anni il capolavoro di D’Arrigo, consentendo allo scrittore di dedicarsi ad esso senza eccessive preoccupazioni economiche: e del resto non si vorrebbe tanto, ma almeno l’esercizio del dubbio che non fugge di fronte alla complessità della scrittura e cerca di capire quanto essa sia necessaria all’esplosione di quei grumi poetici e affettivi che nei libri di valore si nascondono e condensano.
Città distrutte sono biografie impossibili di personaggi che appartengono alla storia pubblica e, per ansimi diversi, a quella privata dello scrittore. Una di queste biografie, quella di Eschilo Licursi, che parte dalla vita vera di Nicola Crapsi, straordinaria e dimenticata figura (tranne che dai pochi che a Santa Croce di Magliano la onorano ogni anno, il primo maggio) di sindacalista molisano della Cgil e parlamentare comunista per un breve periodo a inizio anni sessanta, l’ho vista nascere come ricerca storica (promossa dall’Ediesse e dalla Cgil regionale, allora guidata da Michele Petraroia), fino a trasformarsi in quello splendido esemplare – che è diventato nelle pagine di Davide – del racconto di un destino e di un senso che si incrociano, oltre la vita, in un personaggio letterario che diventa così più vero di quanto la vita avrebbe potuto renderlo, con la sua parzialità e incompletezza.
La complessità e la ricchezza della trama della scrittura di Orecchio non sono lo sfarzoso sfoggio di un talento coltivato da letture e studi (oltre che dalla padronanza di diverse lingue e letterature) che offrono vie e punti di vista non scontati, preziosi, al suo modo di guardare e perciò di raccontare. Sono lo strumento, o il materiale, necessario per ricostruire, incollandone i pezzi dispersi, le architetture frantumate, le volute crollate, i muri portanti sbriciolati dalla tremenda energia della storia che, per un vincitore (o apparentemente tale) che lascia in piedi, come testimonianza del suo violento trascorrere, annienta tutto il resto: le macerie di quelle tante opere d’arte, disperate e vitali, che sono la vita di ciascuno di noi – di chi è venuto prima e di chi verrà dopo – che uno scrittore può osservare con la pietà che cerca, tra i calcinacci, di ricomporre il quadro distrutto, di decifrare il messaggio ancora pulsante che quella vita – ormai diventata muta – ha voluto emettere per parlare ancora.
PS.
Consiglio a chi legge. Davide Orecchio, direttore di rassegna.it, ha scritto, cinque anni fa, l’introduzione alla riedizione dellabiografia del Di Vittorio giovane scritta da Felice Chilanti negli anni cinquanta. Fu un’inizativa editoriale di Rassegna Sindacale: la potrete rileggere nella prossima ristampa in e-book dell’opera. Se l’avete persa la prima volta, non perdetela adesso. Sarebbe imperdonabile.