Giuseppe Giglio su Città distrutte

Giuseppe Giglio, L’immaginazione che rende giustizia al vero, La Sicilia, 18 luglio 2012.

«Leggere una pagina di Cechov è come mettere l’occhio su un vetro nitidissimo e guardare sotto scorrere la vita», diceva la Ortese. E si vede proprio scorrere la vita, a posare l’occhio sulle pagine di Città ditrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi), dell’esordiente Davide Orecchio. Racconti infedeli, come recita il sottotitolo: perché Orecchio, narratore con solide basi storiche, ha compiuto un felice tradimento sugli eterogenei materiali d’archivio compulsati. Si è cioè mosso tra documenti e immaginazione, i documenti aiutando a rendere probante l’immaginazione, per dirla con Sciascia. Sotto la lente della letteratura, ovvero di una finzione che smaschera finzioni: per mostrare la vita vera, vissuta. E Orecchio prova a raccontare l’uomo inventando, costruendo biografie (vengono facilmente in mente Lazzarillo de Tormes, Borges, Bolaño). Nel segno del debenedettiano personaggio-uomo: quello che a ciascuno di noi sempre può somigliare. E che il narratore restituisce con un’azzeccata metafora, la città distrutta: «Certo, sono una città distrutta. Se Dio vuole, la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite», confessa la poetessa Betta Rauch (che scrive tutta la vita, senza pubblicare nulla), uno dei personaggi che animano il vividissimo teatro della memoria di Orecchio. Il quale pone i propri personaggi, le loro vite, davanti alla Storia. Ed essi ne escono sconfitti, devastati, inadeguati, irrisolti.

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Così accade con la desaparecida Éster Terracina, che muore sotto le torture, sostituendosi ad un’altra ragazza che le somigliava molto, e che aveva un figlio da crescere. O con il giornalista Pietro Migliorisi, personaggio squisitamente brancatiano, che sconta tutte le illusioni: «La povertà lo mise al mondo. Mussolini lo inghiottì. Bottai lo deglutì. Badoglio lo rigettò. Togliatti lo prese masticato e lo rimasticò. Stalin lo digerì. Gorbaciov l’ha evacuato». E che dire del regista sovietico Rakar (che ha molti tratti di Tarkovskij), che vive quattro anni d’esilio a Roma, senza riuscire a realizzare quel film che sterili burocrati di partito gli impedirono a Mosca? O di un diplomatico tedesco (dietro cui giganteggia Wilhelm Von Humboldt) presso la Santa Sede, al tempo di Napoleone, che avrebbe voluto scrivere di poesia e di antropologia, e che ama perdersi tra le rovine della città antica, lui che è «spaesato nelle strade che ha dentro»? E a proposito di Napoleone: se è vero che la Storia poco o nulla ci dice dell’uomo di Waterloo, delle sue inquietudini, dei suoi errori, del suo difficile vivere quotidiano, quell’uomo magistralmente ce lo racconta Stendhal, in quell’indimenticabile affresco che è La certosa di Parma. Orecchio si fa «pittore di parole», e dipinge le sue città distrutte: con certi giochi di luce che danno corpo ad una sorta di autobiografia del Novecento, comprese tutte le brutture. Con una prosa agile e potente, domestica e regale, in cui narrazione e saggismo rivelano una sorprendente maturità: quella di uno scrittore che ha ancora molto da dire.»

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