Una recensione/intervista su Città distrutte

Oggi TerraNullius si occupa di Città distrutte. Lo fa ospitando una bella recensione “autobiografica” e partecipata di Luciano Funetta, che inizia così:

«Gli antichi greci avevano un’usanza ammirevole: per coloro che morivano bruciati, inghiottiti dal cratere del vulcano, sepolti sotto una colata lavica, per chi veniva sbranato da bestie feroci o divorato dai pescecani, o le cui membra finivano sparpagliate nei deserti, in patria venivano eretti i cosiddetti «cenotafi», tombe vuote, perché il corpo è fuoco, acqua o terra, mentre l’anima è l’Alfa e l’Omega, a essa va eretto un santuario».

(Danilo Kiš, Una tomba per Boris Davidovič, Adelphi 2005)

Piazza Brin
A Roma sono il mezzogiorno e la polvere. Seduto su una panchina di piazza Brin leggo queste parole: «Quello che è successo è che morì atrocemente. Scoprirono il suo inganno, si vendicarono». Chiudo il libro, guardo l’orologio, penso che ho ancora venti minuti. Raccolgo le due cose che porto inutilmente con me e attraverso l’ombra dell’arco che dalla piazza conduce alla zona più silenziosa di Garbatella. Dopo un po’ mi fermo per fumare e studiare le facciate delle case, intonaci ocra, persiane verdi, fiori rossi, cortili nascosti, odore di sugo. Per quanto mi sforzi, riesco a pensare a quattro cose soltanto: vivo a Roma da un mese, non ho un lavoro, sono innamorato e ho appena finito di leggere un racconto perfetto. Il racconto in questione è Éster Terracina (1951-1976) di Davide Orecchio.

Il libro che riapro poco dopo al tavolino di un bar è Città Distrutte.

Linea metropolitana B – Sottosuolo

Città distrutte è una raccolta di sei biografie “infedeli”, sei vite raccontate in maniera magistrale, con il senso della grazia e della mistificazione, ovvero con il senso dell’orrore e del valore del documento storico. Figlio di Schwob, Borges e Boris Davidovič, Orecchio intreccia la poesia e la Storia. Conosce il valore del particolare. I documenti citati, le date, i nomi, le fotografie costituiscono i puntelli della narrazione, non le fondamenta. L’autore mescola le carte, inventa, sovrappone, uccide senza pietà, dipinge come un fiammingo, compone sei ritratti di bellezza e valore letterario elevatissimi, sei ritratti di uomini e donne del Novecento, uomini e donne che del secolo hanno visto l’orrore, lo hanno subito, a volte lo hanno incarnato. Davide Orecchio dimostra di conoscere l’arte della biografia, ovvero sa mentire spudoratamente e sa convincerci, sa dimostrare l’indimostrabile. Come disse una volta Sebastian Montano, poeta corso: «Lo scrittore di vite immaginarie affumica il vetro della finestra con una candela di sego, perché chi spia dalla notte possa fantasticare sulle sagome che intuisce all’interno della stanza».

Via degli Zingari

Che fine per queste mie parole sudate? Che fine per queste mie parole incatenate con fatica? Che fine per queste mie parole mentite?

Ho mentito, signori. Eppure questa è la verità.

Le rovine di Mitla

L’impressione, leggendo il libro di Orecchio, è quella di trovarsi al cospetto di rovine desolate, rovine che sono tombe vuote e bruciate dal sole o sbriciolate dal vento, rovine magnifiche. Ogni vita è una città distrutta dal passaggio degli eserciti. Ogni vita è una città segnata dalla fuga dei suoi abitanti. In questo modo le esistenze di Éster Terracina, Eschilo Licursi, Valentin Rakar, Pietro Migliorisi, Betta Rauch e del diplomatico prussiano Kauder, opportunamente false, nel senso di falsificate, vengono ricostruite come l’occhio e l’immaginazione ricostruiscono le rovine di Tebe, di Agrigento o di Mitla, in Messico. Proprio ammirando le rovine di Mitla nel 1946, Malcolm Lowry, credendosi salvo, annota: «Il passato, che ad alcuni doveva sembrare triste e disperato come una povera città devastata, a lui sembrava una somma di eccitamenti maledetti». Altrove, in un altro tempo, un altro uomo di nome Ananda Sunya scrive: «La città era bella come il paradiso e rumorosa come la morte».

Piazza Conca d’Oro

«I sepolcri non sono i corpi che contengono.

I ricordi non sono gli uomini che evocano.

Gli specchi. Anche loro falsificano.

Il biografo è sepolcro, memoria e specchio.»

(Ladislav Vilmos, Budapest, 1963)

Periferia romana – Secondo piano

Non mi capitava di piangere a causa di un libro da troppo tempo. L’ultima volta era stata per il romanzo di un cileno morto. Quel cileno adesso è mio fratello maggiore. Dall’incontro con il cileno sono passati quattro anni. Quando ho pianto per Città distrutte non c’era nessuno a guardarmi. Per questo ho potuto. Se mio fratello cileno fosse ancora vivo si nasconderebbe sotto una barca capovolta e piangerebbe anche lui per lo stesso motivo. Se mio fratello cileno fosse vivo scriverebbe di Città Distrutte su un giornale di Girona, senza pensarci due volte. Nel buio della barca rovesciata entrambi pensiamo che la letteratura non ha perso, che con il suo esercito male equipaggiato, malato, arrogante, triste, la letteratura avanza. Su un terreno congelato lungo la linea infinita della trincea, la letteratura prosegue, entra nelle città cinte d’assedio, conta i morti, veglia su quello che resta, perché quello che resta è immenso. Quello che resta è una medaglia incisa da un giovane maestro.

Breve intervista a Davide Orecchio

LF: In un’intervista del 1986 Danilo Kiš disse che la materia dell’immaginazione, per essere credibile, deve avere la forza del documento. E’ questo il motivo per cui si scrivono “vite”?

DO: Probabilmente sì. La questione della credibilità in effetti è narrativa, non storiografica. Nella forza del documento (vero o inventato), nella sua voce che parla con l’autorità (vera o presunta) delle virgolette agisce una scommessa in forma di domanda (che l’autore si pone): “Riuscirò a sabotare l’incredulità del lettore? Riuscirò a convincerlo?”. La voce del documento diventa una terza persona potenziata, autorevole, affidabile. Sostituisce la voce consentita al romanziere (narratore con i superpoteri della fabula) e permette al biografo (narratore senza superpoteri) di farsi leggere esponendo una vita.

LF: La disputa tra storici e narratori è antica. Il biografo, a mio parere, sceglie di collocarsi al centro del campo di battaglia, in mezzo al fuoco incrociato. Tu come la vedi?

DO: Rispondo citando una storica e biografa spagnola, Isabel Burdiel, secondo la quale la biografia è «un genere che esercita un fascino particolare per coloro che iniziano a sentire che la vita si fa seria, e che abbiamo bisogno di ordine e di consolazione in mezzo al rumore e alla furia di una vita che galoppa e ci sfugge». Lo storico in genere si pone il compito di risolvere problemi, individuare processi, riconoscere cause negli effetti, spiegare il presente. Il narratore – la dico un po’ semplice – “racconta storie” e può usare la storia come repertorio. La biografia è una forma di risposta al bisogno di orientarsi nel tempo umano, soprattutto nel passato; alla necessità di dare senso al proprio vissuto attraverso la lettura delle vite altrui. La biografia è terapeutica. Ci aiuta a trovare la nostra collocazione nell’orizzonte dell’umanità.

LF: Perché l’immagine della “città distrutta”?

DO: È una citazione e un omaggio a mia madre, alla cui vita la biografia di Betta Rauch è ispirata. “Sono una città distrutta” è una frase che trovai su un manoscritto di mia madre poco dopo la sua morte. È anche un’immagine perfetta per qualsiasi biografia, destinata umanamente e biologicamente alla distruzione.

LF: Città distrutte è un libro importante perché aspira a restare. Personalmente ritengo che questo sia un requisito fondamentale. Quando lo scrittore carcerato Nicola Sczepanski apprese che il suo editore aveva scelto di ritirare i suoi romanzi dal mercato, ne fu felice. «Circoleranno in un altro modo. Quello dei miei libri sarà un culto segreto», disse a un giornalista che lo intervistò all’Asinara, e così fu. Scrivere ha a che fare con la sopravvivenza?

DO: Purtroppo sì. Ma in realtà è un’illusione. Salvo rare eccezioni, l’opera sopravvive per poco al suo autore. Viaggia nella società fino a un certo punto, come diceva Bolaño, grazie alla critica e ai lettori. Ma poi si ferma e sparisce. Anche l’opera è destinata a morire, come il suo autore. Nella risposta di Sczepanski, poi, vedo un aspetto romantico, una forma di esoterismo autoimposto che è anche uno scudo, un modo di difendersi. O almeno così mi pare.

LF: Ladislav Vilmos, ungherese misconosciuto e recentemente assassinato in Italia, scriveva che la biografia è la forma narrativa che in assoluto permette a ciò che viene raccontato di sopravvivere e ipotizzava la creazione di un archivio che raccogliesse tutte le biografie fittizie comparse dal medioevo a oggi. Secondo Vilmos l’archivio doveva essere collocato sottoterra, in Islanda, in Scozia o nel Donegal. Per il ruolo di bibliotecario propose il bibliotecario per eccellenza, ovvero Borges. Mettiamo che l’archivio esista. Dato che Borges e Vilmos sono morti, chi indicheresti per quel compito?

DO: Immagino che Vilmos conoscesse l’Enciclopedia dei morti di Danilo Kiš, una collezione di vite conservata, secondo lo scrittore jugoslavo, nella biblioteca di Stoccolma (se non ricordo male). A me il Donegal sembra il posto perfetto. Custodirei l’archivio in una casa affacciata sull’Atlantico, se possibile dinanzi a Tory Island. E l’affiderei a un giovane che avesse tutta la vita davanti, ma che dimostrasse anche una forma di responsabilità temperata verso l’archivio: qualcosa da tutelare senza idolatria, senza fede, senza immolarsi, ma vivendo.

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