Giuseppe Giglio, FuoriAsse, su Stati di grazia

Su FuoriAsse, 11, aprile 2014, Giuseppe Giglio recensisce Stati di grazia (SPOILER):

«Si era capito subito, con il folgorante esordio del pluripremiato Città distrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi, 2012), che Davide Orecchio fosse un narratore di felice immaginazione. Ed è tanto più felice, quell’immaginazione, se si pensa alle radici dello scrittore romano (che affondano in un fertile humus storico), alla sua capacità di tradire gli eterogenei materiali d’archivio compulsati per inventare personaggi più veri della realtà stessa. Sotto la lente della letteratura: di quella finzione che smaschera altre finzioni, che svela destini che la Storia nasconde, che dà nuova vita a memorie distorte, oltraggiate, violentate.

E sempre da un tradimento (dei documenti: biografie, quaderni, saggi, diari, foto, storie…) nasce Stati di grazia, il nuovo romanzo di Orecchio che il Saggiatore ha appena mandato in libreria: a dar corpo e sangue, grazie a quel tradimento, ad un caleidoscopio di umanità in cui il colore locale finisce per coincidere con quello universale, a donne e uomini che si sono come riappropriati del diritto di esistere. E proprio dalle note di un diario comincia a dipanarsi l’intricata matassa di vite che sostanzia questo romanzo-poema: sono gli appunti di Paride Sanchis, un maestro elementare che – nell’aspra e dura Sicilia delle zolfare, prigioniero di una vita grigia e soffocante, con una moglie ormai distante e una figlia impaurita dai continui sbalzi umorali del padre – vede morire (proprio in una miniera di zolfo) l’unico suo alunno che amava studiare. Decide allora di scomparire, Paride, in un modo assai singolare (come verrà fuori dal suo diario, dopo oltre mezzo secolo), e lasciando intendere a tutti di essere fuggito in Argentina, a cercare fortuna.

È invece un altro, a partire al posto di Paride (a lui – che pure cerca salvezza: da una vita ostile, che immenso dolore gli aveva recato – il maestro lascia il proprio biglietto), a prenderne il nome, a raggiungere Buenos Aires, dove trova l’amore, e dove presto lo perde, in mezzo alle violenze e agli orrori della dittatura, e tra le brutture di uomini che sfruttano altri uomini, incontrati nel suo accidentato percorso: da minatore senza speranza che era, l’altro Paride diventa bracciante, muratore, viticoltore, instancabilmente cercando un proprio posto nel mondo. Un mondo in cui spesso la “sussistenza della vita dipende da un lavoro che la sottrae”.

Da questo grumo di esistenze si dipartono altri fili, altre vite. Contadini, operai, esuli, medici, militanti del Prt (il partito comunista argentino), disertori, desaparecidos, poeti: eccoli, gli attori che brulicano in questo teatro gorgogliante di memoria; che animano storie piene di fragilità e tragedie, di abbandoni e fughe, di segreti e scomparse, nel segno dell’alienazione (familiare, del lavoro), della ferocia del potere, della solitudine, della sconfitta. Storie che dalla Sicilia delle miniere volano fino all’Argentina di Videla e della contestazione, per poi ricominciare in Italia, giungere alla Roma dei giorni nostri, fino a ritornare là dove tutto è cominciato, come a suggello di un congegno narrativo di precisione. Un teatro, questo allestito da Orecchio, ove ancora una volta recitano, come già in Città distrutte, personaggi che davanti alla Storia escono irrisolti, umiliati, offesi. E che qui affiorano tra le pieghe di una narrazione ribollente di stati e luoghi, di sogni e incontri, di libri e segni: un vero e proprio labirinto di cose viste, sentite, dette, fatte, pensate.

Un amalgama che si scioglie in una lingua realissima e al tempo stesso visionaria, che affabula e stordisce, che procede per accumuli, fino a diventare un fiume in piena sul punto di straripare; una Il rovescio e il diritto lingua dove un luogo, una condizione, uno stato d’animo, persino un gioco dialettale (il riferimento è soprattutto al siciliano) possono rivelare un destino, mostrare una vita quale veramente è, o è stata, o non è stata. E viene in mente il Sebald di Austerlitz, la sua graffiante sapienza evocativa: laddove una strada, un volto, un oggetto, una fotografia restituiscono vite perdute, violentate, non vissute; peraltro instillando nel lettore una sottile angoscia.

Nel romanzo di Orecchio – pur davanti ai soprusi della Storia e del potere, mentre “l’ideologia è disarmata dal camaleontismo del mondo», e come dinanzi ad un dio capriccioso che sembra nascondersi – si avverte invece una condizione diversa, come uno stato di grazia: “un’immagine munita di volo, visione che tira la zattera sulla superficie dell’acqua così che galleggi su correnti poetiche”, un’immagine liberata dalla penna di una poetessa (è Matilde Famularo, uno dei personaggi- chiave, che abbraccia anche la guerriglia del Prt, trovandovi la morte). E così, un’immagine dopo l’altra, ecco “gli Stati di grazia, dove cominciano ad affiorare gli scomparsi: gente sparita da mesi torna a farsi vedere e i testimoni assistono al ricomporsi delle fattezze (come una sagoma che sorge dal buio, come un essere che si manifesti dal nulla ma per gradi”. Donne e uomini spogliati del loro esistere, della loro vita, ne ritornano in possesso: come a riconsegnare, a quella vita, la propria essenza; come a mutarla, quella vita, finalmente in se stessa.

“Se i morti sono, dice Pirandello, ‘i pensionati della memoria’, gli scomparsi ne sono gli stipendiati: di un più ingente e lungo tributo di memoria”, si legge in quel prezioso pamphlet che è La scomparsa di Majorana, di Leonardo Sciascia. E Davide Orecchio – che con Stati di grazia ambisce a raccontare l’avventura umana, seguendo l’alveo (insidioso e fecondo) della militanza della memoria – a quello stesso stipendio probabilmente ha pensato. Tanto più che a Matilde Famularo fa dire: “Quando scrivo, io sono. Nell’avere scritto, io sono stato. Ho esercitato il mio diritto di esistere, incidendo una tacca di me nel libro del mondo”».