Continuità del copia e incolla

Amos Oz, in un brano tratto da Una storia di amore e tenebra (traduz. di Elena Loewenthal), racconta un episodio che riguarda suo padre, il quale…

«a quel tempo era tutto preso dalle letterature dell’Antico Oriente, accadi e sumeri, Babele e Assiria, gli antichi reperti di Tel Amarna e Ahtushash, la mitica biblioteca del re Assurbanipal che i greci chiamavano Sardanapalos, l’epopea di Gilgamesh e il breve mito di Adapa. Pile di libri e lessici s’accumulavano sulla sua scrivania, circondati da una schiera di schede e foglietti. Ora di nuovo cercava di divertire mamma e me con una delle sue solite storielle:

se rubi la tua sapienza da un libro solo sei un ladro letterario. Un plagiatore. Ma se rubi a piene mani da cinque libri, non sei più un ladro bensì uno studioso, e se poi ti industri a saccheggiare da ben cinquanta libri, allora assurgi al grado di luminare».

Accadeva più di mezzo secolo fa. Questa pagina di Oz m’è tornata in mente leggendo Il sapere nella rete, una conversazione tra Stefano Moriggi e Raffaele Simone trascritta sul numero 361 di Aut Aut, ma avvenuta a Udine il 12 maggio 2013 nell’ambito degli incontri di “Vicino/lontano”.

Riporto qui sotto un passaggio (pp. 330-332) dove Simone torna su un tema già esposto in Presi nella rete (Garzanti 2012), saggio nel quale il linguista ha denunciato la trasformazione della lettura, della scrittura e della stessa intelligenza con l’avvento della mediasfera

[cfr. anche le due interviste a Espresso 2012 e Famiglia Cristiana 2013].

«Scriverò prima o poi un lavoro che si chiama “Epistemologia del copia e incolla”: non è una battuta ma un impegno serio dal momento che l’intelligenza ha i suoi strumenti di lavoro e nel campo della scrittura e della lettura uno di questi strumenti è proprio il copia-incolla. Ogni volta che citiamo da Platone, per esempio, stiamo prendendo un pezzo scritto da lui e lo trasferiamo in un testo scritto da noi, sia questo un testo scritto o un parlato come quello che stiamo producendo in questo momento. Secondo il grande Michel de Montaigne questo passaggio è assolutamente naturale: egli si domandava perché non dovesse prendere qualcosa detto da Platone per trasferirlo nel suo discorso come se fosse suo, visto che Platone l’aveva detto meglio.

oz

Questa – che era una risorsa pratica dello scrivente o dello scrittore – è ormai diventata un’epistemologia, una maniera di conoscere. Il cibernauta accede più o meno casualmente a una varietà di fonti e, quando vede che queste interessano il tema di cui si sta occupando, le copia e le incolla in modo da costruire un testo che può essere perfino complesso ed elaborato. Ci sono però alcuni dettagli significativi: il testo non è più mio ma è di “n” autori da cui ho fatto copia-incolla; inoltre, senza saperlo i nostri giovani seguono la linea indicata da Montaigne, cioè non credono affatto che il testo prelevato sia una citazione, ma sono convinti di averlo generato essi stessi. Ciò significa – lo dico incidentalmente – che le virgolette, che servono a marcare ciò che è mio da ciò che è di altri, sono in un momento di grave difficoltà. Le virgolette non sono un espediente grafico, sono un segno di proprietà intellettuale, dato che indicano che lì finisce ciò che penso io e inizia ciò che pensa x.

Il copia-incolla è un’epistemologia perché è il perno di un sistema di conoscenza nel quale è lecito appropriarsi di ciò che ci sembra rilevante. Che sia di Platone, di Aristotele, di Umberto Eco o di Beppe Severgnini poco importa. Infatti la peculiarità dei testi che da anni i giovani universitari producono è la magmatica incongruità interna. Una persona minimamente esperta si accorge subito, già al secondo capoverso, che i due capoversi sono tratti da fonti diverse, ma ciò non crea turbamento nello scrivente, lo crea soltanto nel lettore; lo scrivente non ha affatto la metacoscienza necessaria per sapere che ha prelevato qualcosa da qualcun altro e se ne sta appropriando. In questo senso parlo di epistemologia: quella che era una pratica è diventata una teoria generale del conoscere».

Le virgolette, che servono a marcare ciò che è mio da ciò che è di altri, sono in un momento di grave difficoltà.

L’affermazione, per uno come me che s’è ridotto ad adoperare gerarchie di virgolette (« », < >, ” “, ‘ ‘) pur di rispettare l’originalità di voci e fonti, ha un che di choccante. Ma non mi sorprende. Diverse persone che insegnano raccontano da anni il fenomeno esposto da Simone e incline ad affiorare in tesine e tesi di laurea. Come se il sapere che ha origine dalla Rete (sempre più orizzontale, erratico di link in link, fermo sulla crosta superficiale di una prima pagina di ricerche Google) assomigliasse alle forme di vita condivisa del pianeta Pandora nel film Avatar, senz’averne però la forza (lì biologica e vitale, qui solo conoscitiva) di profondità. Forse è una lettura estrema, allarmistica; insensibile alle molte prassi di citazione corretta che proprio in Rete si sono diffuse, tra un

blockquote e l’altro.

Forse no. L’appropriazione “incosciente” di enunciati altrui e l’indisponibilità a imputare le fonti pare irreversibile nelle cosiddette “nuove generazioni” (ma anche in quelle meno fresche), nonostante gli sforzi dei docenti. E un giorno le nuove generazioni diventeranno i docenti. Le cose cambiano. Accadono appunto – per parafrasare Simone – svolte epistemologiche, fratture accelerate dalla tecnologia, dal fatto che uomini, oggetti, immagini e testi sono ormai parte di un solo reticolo. Eppure anche queste svolte riprendono, a loro modo, linee di continuità culturale: il Montaigne di Simone, la citazione del padre scherzoso di Amos Oz… Trasmettere conoscenza appropriandosene è pratica antica, ora traslocata su nuove piattaforme tecnologiche che accelerano l’occultamento dell’autore, ma… continua (prima o poi).