Buon lavoro

Ho scoperto il valore del lavoro quando mia madre lo perse. La sua azienda chiuse. Prima di chiudere, l’azienda provò a salvarsi in molti modi. Uno fu organizzare una partita di calcio per raccogliere fondi. Allo stadio Flaminio. Parteciparono molti giocatori della Roma e della Lazio di allora. Vidi la partita in tribuna, come tutti i parenti di chi lavorava in quell’azienda. Ottenni un biglietto con gli autografi di Falcao, Pruzzo, Cerezo, Giordano, Laudrup. Ma Platini non c’era. Regalai gli autografi a un amico che tifava Roma.

Ma l’azienda chiuse lo stesso. Mia madre andò in disoccupazione. Per non farsi mancare nulla, lasciò anche il compagno. Non c’era famiglia, non c’era lavoro, non c’erano soldi – e compresi il valore del lavoro, cioè quando mancò misi a fuoco cos’era. Il lavoro. Il salario. L’identità di mia madre. Non conoscevo la parola precarietà ma già ne sapevo il significato.

Traslocammo in un ex portineria. Due camere e cucina. Due soppalchi. La mia camera divideva la parete con una lavanderia industriale. La forza delle centrifughe scuoteva le pareti. Il rumore delle macchine e delle centrifughe, dal primo mattino alla sera, sgretolava i pensieri e le parole. Studiare era difficile, per quanto m’importasse di studiare. Avevo una chitarra Eko e un amplificatore. La suonavo a un volume più alto del rumore che le centrifughe facevano. La suonavo contro le centrifughe.

La parola precarietà, che non conoscevo, era la casa dove vivevamo costretti. Mia madre comprò dei piatti da Oviesse (si chiamava così, non OVS). Mia madre comprò un tavolo di fòrmica, e pensili di fòrmica. L’unico essere libero della casa era la gatta. Saltava dalla finestra. Tornava incinta. Ingrassava. Partoriva. Di nuovo saltava dalla finestra.

Mia madre non parlava della disoccupazione, non creava allarmi nel figlio. Mia madre non parlava dei lavori precari, delle collaborazioni, dei contrattini che andava trovando, dei debiti.

Poi trovò un nuovo lavoro, fisso. Ci vollero anni. Ma ne uscì.

Lasciammo la portineria. Traslocammo in una casa migliore. Non smisi di suonare la chitarra ad alto volume, anche senza le centrifughe contro le quali suonare. Non smisi di ignorare la parola precarietà. Ma ne conoscevo il significato. L’avevo vissuto.

Tutto questo mi è tornato in mente perché volevo augurare, per il 2016, che non perdiate il lavoro, o che troviate lavoro. Un lavoro utile a voi e agli altri. Dal quale ricevere il meglio, dove poter offrire il meglio che avete. Non un lavoro inutile. Non un lavoro che massacri. Non un lavoro di soli ordini ed esecuzioni. C’è un mondo nuovo che nasce. Ha aspetti terribili. Gli anni del macello, della cattiveria sociale. I ricchi sono spietati contro i non ricchi e contro i poveri. Nel tempo dell’austerità prolungata, interminabile, i ricchi volano spietatamente sull’oceano dei poveri, degli impoveriti. Il lavoro perde il valore economico, non basta alla vita. La colonna portante industriale, o produttiva, o del lavoro per sé: si sgretola. La sostituisce un sistema di assenze, di sottrazioni. Se continua così, verrà il giorno che la vita dovrà sopravvivere senza lavoro, quando potrà. E nella riserva dell’estinzione, recintata dal ferro dei poveri, i viaggiatori, provenienti dall’autostrada dei poveri o dal mare degli impoveriti, verranno a vedere, in una teca, il lavoro.

Ma oggi sono ingenuo, chiudo gli occhi e per un momento auguro: buon lavoro. Buon lavoro lo stesso. Nonostante tutto, buon lavoro.

Ostinatamente, buon lavoro.