Nulla sembra cambiato, la vita resiste. La biblioteca di storia resiste, è come vent’anni fa, salvo la novità di tessere magnetiche e richieste via intranet. Ci sono tornato a causa del mio piccolo viaggio e ho preso in mano un’autobiografia in forma di diario firmata da Fidia Gambetti (Gli anni che scottano, 1967, nuova ediz. Mursia 1995). Il libro sta nel Fondo Ajello.
Annoto anche in pubblico due o tre passaggi.
Temi: a lezione di antifascismo dal fascismo, la storia si ripete.
Ruggero Zangrandi nel 1967, tre anni prima di suicidarsi, nella prefazione alle memorie di Gambetti (p. VIII) descrive l’esperienza del fascismo come privazione dell’autonomia critica e intellettuale. Un’esperienza storicizzata. Ma un’esperienza riproducibile, non esclusa dal paesaggio del futuro storico. Sarà bene tenerlo a mente. Il passato trasmette malattie delle quali solo il passato conosce la cura.
Il sacrificio della critica e della ragione
«Ci sono sempre stati tanti fascismi e tante forme di antifascismo. Ce ne saranno ancora. Basta guardarsi in giro con occhio appena esperto, guardare a molti Paesi del mondo contemporaneo, a molti partiti dell’Italia d’oggi, per riconoscerne i connotati. Fascismo è tutto ciò che, nel nome di vantati esaltati mistificati ideali e nella conseguente necessità di non infiacchirli con le troppe discussioni, esige specie nella gioventù il sacrificio della critica e della ragione, la rinuncia all’autonomia del pensiero e del giudizio. Si chiama o si può chiamare “disciplina rivoluzionaria” o anche solo disciplina di partito; ed è solo un metodo, non necessariamente violento, per costringere al conformismo. A tal fine, l’esperienza della nostra generazione, non foss’altro perché la più recente e moderna, è esemplare. E può insegnare ancora. Non chiediamo pietà e neppure comprensione per i nostri errori. Li esibiamo, come sopra un tavolo anatomico…».
Dalle memorie di Gambetti
1930
«Con una lettera all’Italia letteraria, provoco molto scalpore sulla scandalosa attività delle cosiddette case editrici che pullulano in Campania, Calabria e Puglia, spillando quattrini dalle tasche dei giovani ingenui e illusi, i quali sognano di pubblicare i loro parti e aborti letterari e, pur di riuscirci in qualche maniera, sono disposti a qualsiasi sacrificio, anche a togliersi il pane di bocca».
1930
«È l’ora di trovare un lavoro; o, meglio, di cercarlo, perché somiglia un po’ alla storia del classico ago nel pagliaio. Non ho alternativa: niente lavoro, niente Università. […] Entrare nella redazione di un giornale, pare sia possibile soltanto con una pesante raccomandazione romana; quella, ad esempio, per me già irraggiungibile, del segretario federale o del prefetto, conterebbe meno di niente. La categoria dei giornalisti fa quadrato per difendersi dall’assalto dei giovani. Da anni non si assume nessuno, fatta eccezione per il rimpiazzo di coloro che muoiono o vanno in pensione […]. Ciò, del resto, si capisce guardando i giornali che fanno: a parte l’allineamento politico, il loro stile grafico e contenutistico è tuttora quello dell’immediato dopoguerra. A rendere ancora più ermetica e impenetrabile la chiusura della professione, contribuisce il sistema della successione dinastica; onde, quando un giornalista se ne va (all’altro mondo o in pensione che sia), otto volte su dieci il giovane che viene assunto al posto suo è il figlio, o un nipote, o qualche altro più o meno prossimo parente».
1932
«Un film di René Clair, À nous la liberté (in italiano: A me la libertà), ha provocato troppi intenzionali applausi in un cinema romano. Allarmato, il federale dell’Urbe ricorre al Duce in persona, il quale si rende conto che, a questo punto, ordinare il ritiro del film sarebbe peggio. Per fare qualche cosa, dispone la sospensione dal servizio del funzionario governativo che presiede la commissione d’appello per la revisione cinematografica».