Che “Storia aperta” sia stato selezionato nella dozzina del Premio Strega è notizia (per me inaspettata) di ieri, 31 marzo, dunque non è un pesce d’aprile. Sono grato al Comitato direttivo per averlo candidato, a Martina Testa per averlo segnalato al Premio, all’editore Bompiani per averlo pubblicato e a Giulia Pietrosanti, la mia agente, per il sostegno al mio lavoro.
Devo anche ringraziare [o responsabilizzare?] mia sorella Fausta, che mi consegnò quella capsula del tempo nella foto, e mi diede la spinta definitiva nel precipizio novecentesco, nella vita e nelle guerre di nostro padre.
Speravo che la “guerra europea”, almeno quella, fosse un tema consegnato alla storia. E invece no, purtroppo.
Chi ieri ha assistito alla cerimonia, e ha seguito gli interventi di Katja Petrowskaja e Georgi Gospodinov, in dialogo con Marino Sinibaldi, su quanto sta accadendo in Ucraina, ha ascoltato parole lucide e appassionate. Parole delle quali potersi fidare. Non è poco. In tempi di guerra, le parole della guerra investono tutti noi, e germinano guerre di parole. E così, all’improvviso, ci ritroviamo, almeno io mi ritrovo, a desiderare – oltre che la pace, il cessate il fuoco, la fine dell’invasione russa in Ucraina –, anche parole nitide, pulite, utili, ragionamenti dei quali sia possibile fidarsi, e disponibilità al dialogo.
Trovare queste parole non è facile, ma ogni tanto nei libri se ne scoprono, e capita di incontrarle anche durante gli incontri di un premio letterario; sono quindi due volte contento di esserci stato, ieri. La letteratura può essere uno strumento prezioso di decontaminazione dalla propaganda. Ha una responsabilità, ed è giusto che se l’assuma.