Non vi frequento da un po’, eppure siete famiglia. Se entro in un disco nuovo vostro riconosco le fattezze delle voci, delle chitarre nell’anamorfosi dei rumori moltiplicati, nel frastuono, nel beat ossessivo vostro contro la vecchiaia, contro la morte.
Spunta una melodia stupenda, una voce nuda, come quel fiore tra la cenere e la lava. Poi di nuovo il frastuono. Poi mi perdo e torno nei vostri dischi di allora, a colui che io ero.
Io ero vostro fratello minore.
Posso dire che mi salvaste da un decennio di musica che pareva orribile e invece, anche grazie a voi, sarà meraviglioso. Voi mi eravate fratelli maggiori – dalle cassette, dagli lp, dai bootleg, dagli spartiti, dai cd.
Voi mi eravate ventriloqui – vi riproducevo coi polpastrelli sulle corde, mediocremente nelle corde vocali.
Fu un buon periodo. Si ascoltava il nuovo disco come una messa. Il nuovo disco si faceva aspettare. Si ascoltava e piangeva, con le gambe intrecciate sulla moquette, lo sguardo sulle liriche, le serrande abbassate.
Si imparava l’inglese, grazie a voialtri irlandesi.
Aveste il periodo della passione, urlavate, vi arrampicavate, picchiavate sul tamburo, nel riff. Appresi da voi che senza passione non si può nulla, senza coraggio.
Quando entraste nel tempo dell’ironia campionata, e che gemmava una superstruttura di tracce, per me era un po’ tardi, non potevo seguirvi, non avevo più fratelli, né padri, né madri. Ma cosa importa? Viene per tutti il momento in cui si resta senza fratelli, senza padri né madri.
Forse oggi ringrazio la vostra passione, il tempo senza risparmio delle corde vocali squarciate – in nome dell’amore che non ho ancora trovato, dove le strade non hanno nome, per quanto ancora dovrò cantare questa canzone? –, ringrazio il tempo che vi elessi fratelli maggiori. Ossia: grazie a voi, gruppo rock che prese il nome di U2.