Anacronismo di Murakami?

Leggendo 1Q84 del favoloso Murakami Haruki mi sono imbattuto in un dialogo che trascrivo qui sotto:

– Da dove è venuta l’idea per la trama della Crisalide d’aria?
– Mi è venuta dalla capra cieca.
– La parola «capra cieca» è da evitare – disse Tengo. – Meglio dire «la capra non vedente».
– Perché.
– «Cieco» è considerato un termine politicamente scorretto. Se lo usi, tra i giornalisti qualcuno potrebbe avere un lieve mancamento.

Fine della citazione. Per leggere il resto dovete comprare il libro. E’ un dialogo nel quale, ironicamente, Murakami applica le categorie del politicamente corretto a una bestia. La sua collocazione storica, però, m’ha insospettito. Come sappiamo, la vicenda si svolge nel 1984 (e in una dimensione parallela: il 1Q84, appunto).

Ora: se la conversazione coinvolgesse due femministe al Greenwich Village, potrei accettarlo. Ma due ragazzi giapponesi (una di 17 anni e uno di 29) che parlano di “politicamente corretto” con questa consapevolezza, nel 1984? Sorgono dubbi.

Purtroppo non ho conoscenze storiografiche, sociologiche e linguistiche della cultura giapponese. I dubbi, dunque, restano e non evolvono in conferme oppure smentite. Se qualcuno che ne sa di più s’imbatte in questo post, lo invito a commentare e integrare col suo sapere.

Quanto a me, provo ad argomentare con un po’ di link la mia tesi, ossia che nel 1984 un dialogo del genere, in Giappone e tra due ragazzi, non sarebbe stato possibile. E che dunque Murakami è caduto in un anacronismo, errore inteso nel senso che gli attribuiva Lucien Febvre: l’applicazione a epoche anteriori di categorie, concetti, idee, comportamenti adottati in epoche successive.

 “Non sostituiremo per caso al loro pensiero il nostro, non metteremo, dietro le parole che impiegano, dei significati che essi non mettono?” (Lucien Febvre, “Il problema dell’incredulità nel secolo XVI”, Einaudi, Torino 1978, p. 13).

Il termine Politically correct (data di nascita: 1793, ma con diverso significato) inizia ad essere usato negli anni 70 nella cerchia ristretta ed elitaria della New Left nordamericana. Dal WebsterOnline:

«Some U.S. New Left proponents adopted its usage. One 1970 example is in Toni Cade Bambara’s essay “The Black Woman”: “a man cannot be politically correct and a [male] chauvinist too”, illustrating its usage in gender and identity politics, rather than solely about general political orthodoxy. Yet, soon afterwards, the New Left re-appropriated the term political correctness as satirical self-criticism; per Debra Shultz: “Throughout the 1970s and 1980s, the New Left, feminists, and progressives … used their term politically correct ironically, as a guard against their own orthodoxy in social change efforts”».

C’è anche chi l’attribuisce al pensiero maoista, retrodatandone la nascita di qualche decennio. Ma è solo alla fine degli anni 80 che il termine diventa un movimento, un’ideologia. Dalla Treccani:

“Movimento politico nato nelle università statunitensi verso la fine degli anni ’80 del Novecento per rivendicare una maggiore giustizia sociale e per la difesa e il pieno riconoscimento delle minoranze oppresse (gruppi etnici, omosessuali, donne, ecc.). Per estens., la rivendicazione, da parte di gruppi minoritarî, del riconoscimento anche giuridico della propria identità culturale”.

Da Wikipedia:

“Politically Correct è anche il successivo movimento di idee d’ispirazione liberal e radical delle università americane (in particolare nella University of Michigan ad Ann Arbor, Michigan) che alla fine degli anni ottanta si proponeva, nel riconoscimento del multiculturalismo, la riduzione di alcune consuetudini linguistiche giudicate come discriminatorie ed offensive nei confronti di qualsiasi minoranza per cui: afro-americans (afro-americani) sostituisce blacks, niggers e negros (negri), gay sostituisce i molti appellativi riservati agli omosessuali, diversamente abile sostituisce varie espressioni che erano politicamente corrette in passato (minorato, l’anglicismo handicappato, poi portatore di handicap, disabile), disoccupato sostituisce nullafacente”.

Gli atenei nordamericani si danno dei codici di condotta e delle regole in un percorso destinato a concludersi nella prima metà degli anni 90. Solo dopo inizierà la “conquista” dei media, del dibattito pubblico e, infine, del linguaggio comune.

Da Italianisticaonline:

«Decisiva la fine degli anni Ottanta, quando il politicamente corretto investì i “più prestigiosi atenei nord-americani assumendo fin dai primi passi il suo carattere di fenomeno d’élite. Al fondo della sua genesi stava l’idea dell’università come grande luogo di promozione della giustizia sociale”. Alla fine degli anni Ottanta, per l’appunto, cominciarono a diffondersi in quegli atenei dei precisi regolamenti (gli speech codes) che, nell’intento di disciplinare il comportamento verbale tra i componenti del relativo campus, sottoponevano a sanzioni amministrative tutti coloro che si fossero abbandonati a un linguaggio razzista, sessista, omofobico e via di questo passo. Il “primo codice verbale […] ufficialmente istituito fu quello del 1988 all’Università del Michigan ad Ann Arbor. […] Entro il 1993 la gran parte degli atenei e dei college americani aveva provveduto alla creazione di codici di linguaggio e di comportamento, promulgati poi dalle rispettive amministrazioni di ateneo”».

In Italia e nel resto del mondo il termine si propaga successivamente. Il Dizionario etimologico Zanichelli nell’edizione 1989, ad esempio, non ne reca traccia.

E in Giappone? Un indizio che il Politically correct non sia arrivato in fretta si potrebbe individuare in questo passaggio (cliccare sull’immagine per ingrandire il testo) da Geoffrey Hughes, Political Correctness: A History of Semantics and Culture:

Un paese non multiculturale, dunque lontano dai problemi di Usa o Gran Bretagna. Condizionato solo più tardi, e non già negli anni 80 (ipotizzo io), dal dibattito sul Politically correct. Nella lingua di Murakami il corrispettivo di “politicamente corretto” è Kotobagari, come spiega un’altra voce di Wikipedia:

«(“word hunting”) refers to the reluctance to use words that are considered politically incorrect in the Japanese language. For instance words such asrai (癩, “leper“), mekura (盲, “blind”), tsunbo (聾 “deaf”), oshi (唖 “deaf-mute”), kichigai (気違い or 気狂い “crazy”), tosatsujō (屠殺場 “slaughter house”), and hakuchi (白痴 “moron/retard”) are currently not used by the majority of Japanese publishing houses; the publishers often refuse to publish writing which includes these words».

In realtà sembra trattarsi dell’applicazione di un concetto preesistente a una nuova necessità culturale. Kotobagari, infatti, esisteva già durante la Seconda guerra mondiale, inteso come espunzione sciovinista dei termini stranieri dal giapponese. Da Hanayo KosugiPerformative Power of Language: Japanese and Swearing:

«During World War II,  kotoba-gari (eradicating language) was used for English  loanwords in Japanese. People thought using English is the act of kotoage. Izawa explains the reason as follows:  “This is what the Japanese army must have thought. ‘English is the language of our enemy. Using the language of the enemy (performing kotoage) means making the power of  kotodama which belongs to our enemy more powerful. It’ll benefit them, so we won’t let anyone use it.  That will lead us to the victory by doing so’”. This idea of  kotoba-gari affected baseball in Japan from 1943  – 1945.  All the  baseball terms like “strike”, “ball”,  “safe” or “out” were translated into Japanese. “Strike”, for instance, is  sei-kyu (right ball) and ball is  aku-kyu (wrong/bad ball). Kotoba-gari affected not only baseball, but also other things, for instance, the names of magazines or food».

L’estensione (e trasformazione) del termine in riferimento al rispetto per le minoranze etniche e i disabili è arrivata solo dopo l’esplosione del Politically correct anglosassone? Credo di sì. E (credo) diversi anni dopo il 1984.

La capra di Fukaeri/Murakami, dunque, per quanto mi riguarda resta cieca e orba.