Un vecchio articolo del 2005, dove raccontavo un Primo Maggio particolare.
«Due anni fa, in mezzo alla gente di Santa Croce di Magliano, all’incertezza dei vecchi, alla corsa dei bambini, al getto degli adulti, agli adolescenti che facevano ala, alle cadenze serie dei sindacalisti, al venire incontro di chi non partecipa ma segue dal riparo del marciapiede, c’ero anch’io. Passa il corteo del primo maggio. Contadini, operai dello zuccherificio, pensionati, emigrati, disoccupati. E poi la banda musicale. Alcune centinaia di persone lungo vicoli di terracotta. Santa Croce – la “culla rossa” del Basso Molise, cittadina di cinquemila respiri tra valli e colline a sessanta chilometri di curve da Campobasso e a ottanta da Foggia – si ferma a celebrare. Non potrebbe fare diversamente. L’ha sempre fatto.
Ma cosa succede, una manifestazione o una cerimonia religiosa? Potrei chiedermelo, visto che cinquanta metri avanti a noi due giovanotti camminano tenendo in braccio un quadro. Tra loro e il resto del corteo c’è uno spazio vuoto. Anzi no, è pieno: di rispetto e senso del sacro, che trovano posto sull’asfalto non ancora calpestato. Il dipinto che i due issano come una croce raffigura un uomo nell’atto d’un comizio, nel sollevare una mano mentre con l’altra s’appoggia a un davanzale. Un retore in doppiopetto grigio, completamente calvo e abbronzato, sullo sfondo di una bandiera rossa. Che stranezza: un primo maggio governato da un quadro. Una cornice che attraversa il paese. Però io so tutto e non mi stupisco: quello nel ritratto è Nicola Crapsi, il sindacalista più famoso di queste terre, un uomo che dedicò la vita ad aiutare i deboli. Ogni festa dei lavoratori lo portano in processione come un santo. Lo staccano dalla parete, gli tirano fiori e confetti e così lo ringraziano, lui che è morto quarant’anni fa.
Forse oggi gli chiedono anche protezione. Di sicuro ne hanno bisogno. Quaggiù, nell’ottobre del 2002, c’è stato il terremoto. Sfiliamo, appena sei mesi dopo, tra le briciole: le rovine della Chiesa Greca, le crepe sul torso della Chiesa Madre Sant’Antonio, i frantumi del campanile di San Giacomo Apostolo; e poi gli scortecciamenti dell’edilizia civile, palazzine butterate sorrette da travi, e rughe su ogni facciata. Dunque è un primo maggio senza festa. Taciturno. Intaccato dal lutto. Stravolto anche nella liturgia: il corteo, infatti, non si risolverà entro le mura di Santa Croce, come vuole la tradizione. No. Questo è un giorno coraggioso. I vecchi del paese, assieme a tutti noi, hanno deciso di uscire in aperta campagna per raggiungere a piedi l’abitato provvisorio della vicina San Giuliano di Puglia, dove morirono 26 bambini e una maestra nel crollo di una scuola, causato dallo stesso sisma che qui ha attempato i laterizi. Ci aspetta una fatica, anche morale. Il corteo finirà laggiù, dove madri e padri hanno sepolto i propri figli.
Nel frattempo Crapsi ci fa strada. M’avvicino. I due che lo portano sono già tutti sudati. Però non mollano. Tanto lo rispettano, e religiosamente, che finiscono col contagiarmi. Osservo la tela come se da qualche parte nel ritratto fosse nascosto un passaggio segreto (dietro agli occhi, nella chiostra dei denti, sotto al polsino… da qualche parte), una specie d’imbuto temporale che conduca dritto agli anni in cui quell’uomo agì. Quando il passato era presente.
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“Statura: 1.70. Corporatura: snella”. Capelli di forma “liscia” e “foltezza scarsa”, viso “lungo” e “abbronzato”. Fronte “convessa”, naso “piccolo” e “leggermente concavo”. La mandibola? “Sporgente”, così come il mento. Le gambe sono dritte, le mani lunghe, l’andatura “dondolante”, l’“espressione fisionomica” è irrimediabilmente “truce”. Ma almeno l’abbigliamento abituale è “decente”. Questa la descrizione esteriore del “militante comunista” Nicola Crapsi, che nel 1924 il prefetto di Campobasso invia a Roma, precisamente al Casellario politico centrale del Ministero dell’Interno istituito dai fascisti per il controllo dei “sovversivi” (Archivio centrale dello Stato, Cpc, b. 1524, f. 49530). Il prefetto prosegue definendo Crapsi un “nullatenente, di professione meccanico”. E aggiunge nelle sue note biografiche: “Riscuote pessima fama in pubblico, di carattere violento, di scarsa educazione, d’intelligenza e coltura media, dedito poco al lavoro; (…) frequenta le compagnie di sovversivi; nei suoi doveri verso la famiglia si comporta male, facendole financo mancare i mezzi di sostentamento”. E ancora: “Riceve giornali sovversivi, fa propaganda fra le classi operaie e contadine (…), è capace di tenere conferenze e ne ha tenute a S. Croce di Magliano, Bonefro, S.Giuliano di Puglia, Isernia ed Agnone (…), tiene contegno ostile verso le Autorità”.
Un caustico ritratto di Nicola Crapsi, uomo del popolo. Che nasce a Santa Croce nel 1899 da due contadini, Matteo e Camilla, e si forma sui campi, riceve l’educazione dalla terra e dal sole, ma frequenta anche la scuola, fino alla quinta elementare, senza però prendere la licenza, e poi, nel 1913, si trasferisce a Roma, dove presso l’Isotta Fraschini diviene elettromeccanico specializzato. Tornato a casa, inizia a frequentare la Camera del Lavoro e la sezione socialista. Si fa una cultura. Legge Costa, Turati, Labriola e Treves. Debutta come oratore nei comizi. Propugna la causa della giustizia sociale. Scoppia la guerra e, nel 1916, lo mandano al fronte. Ha diciassette anni, è tra quelli di Caporetto. Nel ’20 lo congedano, torna a Santa Croce, apre un’officina, riprende con la politica, difende braccianti, operai, artigiani, invalidi di guerra, imputa al governo la fame e la miseria. Sceglie da che parte stare. Diviene segretario della sezione socialista. S’inventa lo sciopero a rovescio: va coi compagni disoccupati a mietere grano maturo in un appezzamento (vedi scheda). Così l’arrestano. Uscito di prigione, rientra a Santa Croce, dove l’accoglie una folla immensa, che un anno dopo lo elegge sindaco, il primo socialista a capo dell’amministrazione comunale. Ma dura poco. Nel ’22 i fascisti sciolgono il consiglio, gli squadristi mettono a ferro e fuoco il paese. Inizia il regime, avere un’opinione diventa un’impresa, Nicola si sposa e continua l’attività politica, nel ’26 s’iscrive clandestinamente al partito comunista, nel ’29 il prefetto di Campobasso aggiorna i camerati romani: “Svolge tuttora un’occulta propaganda a pro’ del partito nel quale milita”. Ma lentamente Nicola s’estenua, i partiti li hanno sciolti, la Camera del Lavoro l’hanno chiusa, bisogna sopravvivere, nel ’30 si trasferisce a Giulianova, dove trova lavoro presso l’Unione esercizi elettrici. Forse perché gliel’impongono in azienda, forse per “entrismo”, fatto sta che nel ’33 chiede la tessera fascista, ma nel ’34 (informa la prefettura di Teramo) ancora “conserva idee sovversive”, così gli negano l’iscrizione al Pnf, e nel ’39 perde il lavoro. Ne trova un altro – sempre come elettricista – a Teramo, dove si trasferisce e lo sorprende la guerra; tuttavia “mantiene buona condotta” e bada a lavorare, ma solo in apparenza, perché alla liberazione il Pci gli affida la direzione della federazione provinciale. Segno d’inequivocabile fiducia.
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Mezzogiorno passato. Il sole ci casca sulla testa. Il corteo ha lasciato il paese e procede verso il baraccamento di San Giuliano su una strada di prati e bassure. Al riparo dei cappelli di feltro i vecchi camminano appena, seriamente. Il dipinto di Crapsi, lì davanti, è in mano a un solo portatore, che se lo poggia sul petto fino all’ombelico. Quelli della banda, tutti in uniforme di lana scura ed estenuati, hanno smesso di suonare e camminano ognuno per sé; il passo è da traversata del deserto. Ogni tanto un ottavino arrischia l’Internazionale, ma c’è più forza nei richiami delle cappellacce qui intorno. Il sassofonista chiede acqua. Un altro, che regge il trombone sulle spalle come un Anchise, mi domanda tra quanto arriviamo. Poi in una forra ci appare San Giuliano di Puglia: uno scrigno di macerie sorvegliato dai carabinieri, dove più nessuno abita. Difatti non è lì che stiamo andando. Passiamo oltre.
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Finirono la guerra e il fascismo. La gente uscì dalle grotte. Crapsi lascia Teramo per Campobasso, dove gli viene affidata la direzione della Federazione comunista. Ex socialista, è l’uomo giusto per la politica del Fronte popolare. Uomo d’alleanze e dialogo. Porta il Pci fuori dell’isolamento politico. Ma il nemico resta sempre la fame del popolo, stremato dal conflitto. Così Nicola si dà da fare, aiuta tutti, viaggia in lungo e in largo, dispone la raccolta del grano e dei generi di sussistenza, apre la “mensa del popolo” a Campobasso, ottiene per i braccianti l’imponibile sulle terre dei proprietari, ossia un minimo obbligatorio di lavoro (e contributi previdenziali) per tutti. A volte fa registrare negli elenchi anche chi non ha lavorato, ma la fame non guarda in faccia la legge, mentre Nicola Crapsi dal viso pulito la gente del Molise lo conosce bene, e inizia a ringraziarlo, a riconoscerlo, a rincorrerlo.
Inaspettato, arriva il tempo delle sconfitte. Dopo il ’48 Pci e Psi si dividono. Non è più stagione d’alleanze. È tempo di lotte. Nicola non è adeguato. 1949, da Roma il Pci manda due ispettori, che redigono rapporti molto critici: la linea politica di Crapsi è “opportunistica” e tradisce un’assoluta mancanza di frizione “tra noi e i reazionari”. Nonostante sia “venerato dai compagni”, se ne decide la rimozione dalla guida del partito (si veda il carteggio tra la direzione romana del Pci e Campobasso tra gennaio e settembre del 1949, in Istituto Gramsci, Arch. Pci, b. 302, ff. 2823-37). A Nicola rimproverano d’andare troppo d’accordo coi socialisti, ma soprattutto la fiacchezza nel condurre la battaglia per la conquista delle terre, che il Pci combatte in tutto il Meridione. Contadini e operai devono allearsi, gramscianamente, contro la proprietà. La guerra è guerra. Questo – si chiedono i compagni – Nicola l’ha capito? Forse è troppo tiepido. Lui ha altre idee in testa: pensa alla cooperazione, piuttosto che all’espropriazione. I locali, poi, spargono veleno: qualcuno l’accusa d’essere nella massoneria. Così, nonostante sia l’esponente politico più amato della sinistra molisana, nelle elezioni del ’53 e del ’58 viene messo da parte: al Parlamento ci andranno sempre altri. Crapsi, invece, oltre all’incarico d’assessore comunale a Campobasso, va a dirigere l’Inca, il Patronato della Cgil. Anche qui si fa valere. Ben presto vanterà il maggior numero di ricorsi accolti dall’amministrazione statale. In ogni paese c’è almeno una persona che gli è debitrice. Soprattutto a Santa Croce, dove non l’hanno dimenticato. Per lui sono anni amari, ma è adesso che il mito di “zio Nicola” mette radici. Nella cura di ciascun bisogno. Nell’ascolto di ogni dramma individuale. Nicola pensa: sono queste le cose importanti, e chi se ne importa se a Roma non mi considerano.
Gli anni passano, il partito cambia. Alla fine dei Cinquanta arriva la svolta di Amendola: via i vecchi funzionari, il Pci si rinnova. Così, paradossalmente, c’è un’occasione per il vecchio Nicola, ormai sessantenne. Alle elezioni del ’63 il capolista del partito alla Camera è lui. Vince. E diventa il primo deputato molisano a Montecitorio. È il momento di portare la causa di braccianti e operai a Roma. Il coronamento di un’esistenza. Ma è troppo tardi. Nicola è malato. Un’affezione polmonare lo sfibra. Il 23 settembre del 1965 muore a Roma, in un letto d’ospedale. Quel giorno lui e il suo corpo si separano. Il corpo lo riportano a casa; Santa Croce celebra un funerale di folla. Nicola, invece, trasloca in un quadro. E in una memoria perdurante.
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Siamo arrivati alle baite di San Giuliano. Al villaggio di prefabbricati costruito a tempo di record, dopo il sisma. Gli sfollati escono dalle case di legno, si fermano sotto i portici e ci osservano. Pochi si uniscono a noi. Da qualche parte, tra una capanna e l’altra, nei reticoli improvvisati delle fogne o della corrente elettrica, si nasconde il loro strazio. Hanno perso figli e nipoti; i più fortunati solo la casa. Si dice che il dolore unisca chi sopravvive in affetti più saldi. Spesso accade il contrario. Questa comunità – mi hanno raccontato – è lacerata dal rimorso. E di nuovo, noi del corteo, passiamo oltre. Confluiamo in uno sterrato dov’è allestito il palco. Posano il ritratto di Crapsi accanto ai microfoni. Lui non può più parlare in pubblico. Ma c’è. Sopra un campo torrido, iniziano i comizi. Parla il sindaco di San Giuliano, orfano di una bambina, e poi i sindacalisti. Riprende l’eterno discorso di chi cerca giustizia. La ricostruzione, l’abbandono, la dignità di questa terra e di quanti la lavorano e abitano: a qualche anziano sembra d’ascoltare la voce di zio Nicola. Che sia ancora dei nostri? Guardiamoci in giro, compagni. Oppure cerchiamolo dentro di noi.»