Su Lo straniero

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Lo straniero, nel numero di aprile, pubblica una recensione molto bella di Stati di grazia firmata da Marcello Benfante. Ringrazio l’autore e la rivista diretta da Goffredo Fofi per l’attenzione che hanno dedicato al romanzo.

Qui il testo (SPOILER):

«Stati di grazia (Il Saggiatore) di Davide Orecchio (Roma, 1969) è un romanzo intenso e a tratti anche avvincente, nonostante l’affaticamento, non sempre necessario, della lingua, tra dialettismi e neologismi, forzature e contorsioni, che hanno comunque il pregio di sottrarre la prosa all’anodina ovvietà di tanta pseudo-letteratura, ma a volte incorrono in un compiacimento virtuosistico e tormentato.

Accade infatti che Orecchio s’incanti (e ci incanti, pure) in elencazioni giaculatorie o indugi in una accumulazione tracimante, come alla ricerca di un ritmo ossessivo da imprimere alle parole e ai fatti, in una sorta di ipnotica liturgia sperimentale. Tuttavia, anche questo incedere tra l’anafora e un logorroico mantra, l’enciclopedia e il catalogo, la litania e l’inventario, sebbene esposto alle subdole insidie della retorica, ha un suo senso e una sua giustificazione poetica nell’economia di un testo che è tutto strutturato nell’ossessione della fuga e della trappola e nelle antinomie del destino e del libero arbitrio, entrambe votate allo scacco e all’assurdo.

La vicenda, a metà strada tra i paradossi de Il fu Mattia Pascal e il colpo di scena di Una rosa per Emily, ha un sorprendente andamento à rebours (a meno di non sbirciare anticipatamente il glossario in appendice). Nel senso che l’epilogo, con la sua sconvolgente rivelazione, costringe il lettore a una totale revisione degli avvenimenti narrati.

La storia si svolge tra la Sicilia, l’Argentina e Roma, nell’arco di circa un cinquantennio (dal 1954 al 2006), con una progressione non rigidamente cronologica. L’inizio, di grande forza espressiva e suggestiva, evoca la Sicilia sulfurea e feroce delle miniere nella prima metà degli anni Cinquanta: mondo primordiale e ctonio (in cui risuona la verità inquietante di tanta grande letteratura isolana ottocentesca e novecentesca, da Verga a Pirandello fino a Sciascia) che inghiotte vite, soprattutto di bambini, senza restituire alcuna ricchezza o speranza.

Testimone di questa epopea di fuoco e sangue è il maestro Paride Sanchis, che assiste impotente alla tragica dispersione dei suoi alunni più poveri, precipitati nelle viscere degli ultimi giacimenti, spietata risorsa di una terra e di un’esistenza senza scampo. Segue la fase nel Nuovo Mondo: dapprima lusinghiera, apparentemente aperta al futuro e al riscatto, alla rinascita degli uomini perduti e dimenticati, senza nome e bagaglio; poi tralignata nel delirio dittatoriale, nell’incubo della persecuzione e del massacro. Da un inferno all’altro, da una voragine all’altra, dal buco nero della “Sicilia crudele” alla scellerata macchina inquisitoriale della “Argentina violenta”, insieme all’ambigua odissea di Sanchis, si intrecciano i percorsi fatali di tante vite spezzate e disperse. Perfino sopravvivere e cavarsela, avventurosamente e fortunosamente, espatriare, ricominciare daccapo altrove, lontano dall’orrore, è solo un’illusione di libertà, che sempre dovrà fare i conti con il passato che non passa, i fantasmi che ritornano in un muto dialogo, il dolore mai rimosso, il lutto mai del tutto rielaborato, la tortura che si rinnova nella mente devastata, il pozzo contaminato dei ricordi. L’Italia, con la sua fragile democrazia sempre sul punto di sudamericanizzarsi, è il luogo neutro, un Limbo adiacente alla gelida Caina, in cui molti transfughi cercano, più o meno consapevolmente, un problematico ritorno alle radici o un’uscita di sicurezza senza garanzie e reali sbocchi, se non quelli, forse, affidati alla ricostruzione della memoria e della storia negata dei sommersi, in cui consiste infine la visionaria epifania degli “stati di grazia”.

La formazione storica di Davide Orecchio presta una salda struttura documentaria a un diario corale e frammentario che implode in tante schegge narrative di struggente impatto emotivo. Come nel suo felice e premiato esordio, Città distrutte (Gaffi, 2012), Orecchio dà anima e voce al reperto d’archivio, al dato bibliografico, al dossier fotografico e topografico, ricostruendo con archeologica empatia, alla maniera di Sebald e Schwob, un mosaico di biografie infedeli, di ritratti immaginari, ancorché autentici nella loro perfetta esemplarità, in cui s’invera e spiega, nella lezione della passione umana, il senso imponderabile delle sorti individuali e collettive.».