I pranzi d’autore di mia madre

A chi possa interessare.

Vent’anni fa, mentre andava morendo, mia madre raccoglieva ricette. Dalle sue carte e dai libri (all’epoca Google non c’era) si spargeva per casa il sapore immaginato – con l’odore – dell’omelette di Tabucchi, del pane all’uvetta di Maupassant, dei krapfen di E.M. Forster. Stanava pietanze da romanzi, memoriali, racconti. Aveva il progetto, mia madre, di un matrimonio; ossia di sposare letteratura e cucina. Mentre moriva. Mentre il primo medico disse: è il mediàstino, di là passa il respiro, la voce, anche il cibo; è l’autostrada del corpo, signora, dove ora il suo tumore cresce. Mentre il secondo medico disse: non è operabile; non è compatibile con la vita, signora, operare. Mentre il terzo medico disse: è curabile (e sorrideva), forse guaribile (senza sorriso).

Mentre moriva. Raccoglieva ricette. Mia madre. Dalle sue carte, dai libri, dagli scaffali di biblioteche romane. Si votava al libro dei Pranzi d’autore. Lei lo chiamava il mio piccolo libro, il mio libro-sfizio di madre avariata. Sapeva bene che aveva fatto di più. Sapeva di correre il rischio della donna/ricette/cucina/cliché. Ma lei che aveva fatto di più, ora aveva bisogno di questo. Mia madre. Mentre andava morendo. Componeva l’indice dei piatti che non avrebbe mangiato né cucinato.

Aveva nel mediàstino, mia madre, il veto al cibo. Prendeva piccole dosi di cibo. Bocconi di pasta scotta. Verdure. Minestre. Tre settimane su quattro mia madre negoziava col mediàstino il cibo. Poi strappava il consenso allo stomaco. Per la pasta scotta, per verdure e minestre. Io le cucinai il cacio e pepe, con la pasta scotta. Io le preparai del tritato piccolo, crudo, vermiglio. Mentre moriva. Tre settimane su quattro. Tre anni su tre. Nell’anno del terrore, nell’anno della speranza, nell’anno che si prese ad aspettare la morte. Mentre moriva, la quarta settimana era invece della nausea e del vomito. La chemioregìna teneva per sé la settimana numero quattro. Sette giorni su trenta appartenevano alla chemioregìna, mentre mia madre, che andava morendo, sveniva pure e rigettava e s’avventurava nel mondo nuovo delle ciocche che cadono, del cranio nudo, del sapore gastrico. Il quarto medico le disse: lei si gonfia, poi lei si sgonfia, il suo tumore sembra una molla che si tende e rilassa, abbia speranza. Il quinto medico le accarezzò una gota che era già enfia (non più mia madre ma l’esito del male e della chemioregìna).

Mentre moriva, eppure, né mangiava né più viveva decente, ecco che entra Lo straniero col suo ultimo pranzo prima di uccidere. Mersault fa una gita al mare con Raymond e Marie. Scendono sulla spiaggia alla periferia di Algeri, fanno il bagno e per pranzo Camus li racconta ospiti dell’amico Masson, presso il quale mangiano una frittura di pesce. Poche ore dopo Mersault uccide l’arabo («quattro colpi brevi bussati alla porta della sventura»). Ma questa ricetta di triglie fritte a quando risale?, si chiedeva mia madre. Ecco, ho trovato, io dico, lei disse: Algeria 1935. Ci vorranno dodici triglie, due uova, limoni, pepe, 50 grammi di farina, 500 grammi di pomodori, aglio, olio. Mi raccomando:

«Svuotare, pulire e asciugare le triglie, passarle nella farina e poi, rapidamente, nell’uovo battuto. Friggerle subito, fino a renderle dorate. Condire con sale e pepe. A parte versare olio in un tegame e cuocervi i pomodori spaccati in due e insaporiti con aglio tritato, sale, pepe. Servire sul piatto insieme a fette di limone, come contorno delle triglie».

E questo era fatto. Mentre andava morendo. Andava scrivendo. Sposava letteratura e cucina. Si votava al libro dei Pranzi d’autore. Così all’improvviso – tra la notte che la trovai sulla strada dal letto al wc, caduta nella guerra con la nausea cecchina; tra il viaggio a Parigi verso l’ospedale banlieue/l’hotel banlieue/il tè caldo banlieue; tra la fine dei capelli castani e il regno della parrucca al colore di nutria; mentre mia madre andava morendo; mentre mia madre moriva; mentre testimoniavo mia madre sino all’ultima madre, fino al rantolo, fino all’epoca sola – ecco che «una sera, tra le tavole imbandite e i vassoi di Donnafugata, appare Angelica. È la prima volta e il principe e la principessa di Salina, con Tancredi, la guardano stupiti dalla sua bellezza. Il pasto si apre con l’ingresso di tre timballi di maccheroni». Ma questo timballo a quando lo vogliamo datare?, si chiedeva mia madre. Ecco, ho trovato, io dico, lei disse: Italia 1860. Mi raccomando:

«Per dodici porzioni, sugo di carne senza pomodoro, creste, ovette, funghi secchi o freschi, polpettine, salsicce, tartufi, 300 grammi di zucchero… «Preparare in anticipo un abbondante sugo di carne senza pomodoro e sgrassarlo. Il ripieno si può arricchire a piacere. Preparare ovette, funghi, polpettine, salsicce a pezzetti, prosciutto; fare insaporire il tutto col burro e poi cuocere in casseruola con qualche cucchiaiata di sugo di carne. Spolverare con un po’ di tartufo. Preparare la crema pasticciera con tre cucchiai di zucchero, tre tuorli d’uovo, due cucchiai di farina, un pizzico di sale, un pizzico di cannella e mezzo litro di latte».

E questo era fatto. Ma non bastava. Mentre mia madre andava morendo. Sposava letteratura e cucina. Si votava al libro dei Pranzi d’autore. Al Gattopardo seguì tutta una schiera. La marmellata di lamponi di Anna Karenina. La fricassea di Madame Bovary. La torta di frutta secca di Oblomov. Le melanzane all’amore di García Márquez. La torta di mele di Wharton. Il soufflé al rum di Mansfield. Accidenti! Mentre moriva, viveva. Disponeva le vivande del sognoavversàrio di tumore, mediàstino, chemioregìna. Mentre mia madre andava morendo, vent’anni fa, si cibava di poco. Ma sposava letteratura e cucina. Ma si votava al libro dei Pranzi d’autore.

S’ammalò anche la casa. Le pareti si screpolarono. Chiamammo il muratore per rinfrescarle, che rifiutò. Disse che la casa ha la dermatite. Disse anche mia moglie ce l’ha. È l’alopecia, disse, è il problema al sebo, disse. Ci vuole il dermatologo, disse il muratore indicando le pareti di casa spacciate. Qualcuno conosce un bravo psicologo? Ne ha bisogno la nostra casa. Qualcuno sa quante gocce di Lexotan può ingerire la casa per riposare tranquilla, la notte, senz’avere gli incubi e senza arrecarne? Volevamo ristrutturarla, arredarla a nuovo, ma anche l’architetto avanzò molti dubbi, ipotizzò che la casa soffrisse d’agorafobia, per questo non vuole mai uscire di casa, disse non vi servo io, piuttosto conoscete un bravo psichiatra? Mentre mia madre andava morendo. Aveva i testimoni nel gatto, nel bonsai, nella casa, nel me che era il figlio. Ma sposava letteratura e cucina. Ma si votava al libro dei Pranzi d’autore.

Il giorno del suo compleanno ultimo, pochi giorni avanti alla morte, il libro dei Pranzi d’autore era uscito da un po’, adesso non può votarsi più a nulla, le ho cucinato la pasta scotta col cacio e col pepe, brindiamo ai suoi anni sul divano che trema, sulla moquette che ha le scaglie di sebo, disse “sei buono” a me e allo spumante, guardiamo il film di Woody Allen, poi il film di Wim Wenders, somministriamo venti gocce alla casa, quindi andammo a dormire, quindi domani mia madre si ricoverò, quindi dopodomani mia madre non si risvegliò. Mentre moriva. Mentre andava morendo. Quindi ebbi l’onore di conoscere il Rantolo (che lingua parla il Rantolo? È il vero esperanto; si fa comprendere dal mondo tutto).

pranzi d'autore

Nove anni fa, dieci anni dopo, ho aggiunto una nuova, piccola lapide. Quattro anni fa, quindici anni dopo, ho pubblicato l’annuncio sul quotidiano. Da qualche tempo non trovo la tomba. Non amo la tomba. Ma da qui a non trovarla! Mi sono perso al Verano, un giorno. Ho cercato la tomba. Non ho trovato la tomba. Ho trovato decine di tombe. Lì dove credevo che fosse mia madre c’erano gli altri. Ho trovato le tombe degli altri. Il disdicevole me s’è perso al Verano. Il riprovevole me s’è perso sua madre. Non l’ho trovata tra le cripte, i marmi, i loculi, nel perimetro, nell’area del Verano spietato.

Ma a un simile fallimento e sbigottimento si può sopravvivere grazie al fatto che a casa ho i Pranzi d’autore. Che mia madre mentre moriva andava scrivendo. Che furono l’arma. Che furono l’argine al mediàstino, al male, alla chemioregìna. Per un poco di tempo. Così, ora che sono passati vent’anni, ricordo quei giorni di vita e ricette in cui mia madre si votava ai Pranzi d’autore.

Per un poco di tempo ricordo sul blog le ricette. Le regalo insomma a chi possa piacere. Le ricette. Dei Pranzi d’autore. Del piccolo libro cui mia madre si votò mentre andava morendo. Quando si cibava di poco ma sposava letteratura e cucina. Dal tempo in cui andava morendo e componeva timballi, marmellate, soufflé. Una al mese, per i prossimi mesi, da qualche mese io pubblico e lei regala queste ricette. Non trovo la tomba. Ritroverò la tomba? L’ultima volta che andai ho trovato le tombe degli altri. Non ce l’ho su con gli altri. Ma insomma, la tomba di mia madre dov’è? Intanto però ho le ricette. Di mia madre. In fondo le abbiamo tutti. Cioè questo è il mio omaggio per lei. Entrano le ricette nel vostro dominio (anche se non so chi voi siate, sono per voi). Magari qualcuno adesso le legge. Magari a qualcuno capiterà di volerle applicare. S’accenderanno uno, due, tre fornelli. Forse un forno. Una griglia. Forse qualcuno mi dirà che sapore hanno le creazioni di queste ricette, che mia madre andava scrivendo mentre andava morendo.

QUI LE RICETTE (presenti e future):
https://davideorecchio.it/tag/pranzi-dautore/

Tratte da: Oretta Bongarzoni (qui una nota biografica), Pranzi d’autore, Editori Riuniti 1994.

P.S. Sono poche le pietanze vegetariane. Me ne scuso, ma nell’Ottocento e Novecento, nella letteratura di allora, regnava la carne.


AGGIORNAMENTO, 18/11/2022

Torna in libreria Pranzi d’autore, grazie a minimum fax. Una nuova edizione delle ricette letterarie di Oretta Bongarzoni. Di Pranzi d’autore ho scritto così tanto, su questo sito, che non riesco ad aggiungere altro. Sono felice di avere trovato un editore che lo riproponesse. Voglio solo festeggiare.