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Vent’anni fa, mentre andava morendo, mia madre raccoglieva ricette. Dalle sue carte e dai libri (all’epoca Google non c’era) si spargeva per casa il sapore immaginato – con l’odore – dell’omelette di Tabucchi, del pane all’uvetta di Maupassant, dei krapfen di E.M. Forster. Stanava pietanze da romanzi, memoriali, racconti. Aveva il progetto, mia madre, di un matrimonio; ossia di sposare letteratura e cucina. Mentre moriva. Mentre il primo medico disse: è il mediàstino, di là passa il respiro, la voce, anche il cibo; è l’autostrada del corpo, signora, dove ora il suo tumore cresce. Mentre il secondo medico disse: non è operabile; non è compatibile con la vita, signora, operare. Mentre il terzo medico disse: è curabile (e sorrideva), forse guaribile (senza sorriso).
Mentre moriva. Raccoglieva ricette. Mia madre. Dalle sue carte, dai libri, dagli scaffali di biblioteche romane. Si votava al libro dei Pranzi d’autore. Lei lo chiamava il mio piccolo libro, il mio libro-sfizio di madre avariata. Sapeva bene che aveva fatto di più. Sapeva di correre il rischio della donna/ricette/cucina/cliché. Ma lei che aveva fatto di più, ora aveva bisogno di questo. Mia madre. Mentre andava morendo. Componeva l’indice dei piatti che non avrebbe mangiato né cucinato.
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