Un amico mi ha scritto una lettera:
«Caro Davide,
tempo fa un uomo è apparso sullo schermo del mio computer, nella colonna destra della bacheca Facebook, quella che sorveglia la mia età, i miei interessi, le pagine web che ho visitato e che mi porto appresso, gli acquisti che ho fatto o considerato. In effetti mi appare da giorni. Quest’uomo potrei essere io? Potrebbe essere uno come me? Immagino che l’algoritmo di Facebook lo ipotizzi. E vuole convincermi. In che modo? Mostrandomi che lui mi assomiglia ma è peggiore di me, leggermente. In effetti è più grasso e ha meno capelli, sorride infelicemente da una postazione d’ufficio: scrivania, computer, sedia ergonomica, camicia bianca e cravatta, le penne nel taschino, il mouse a portata di mano e a disposizione per il prossimo comando.
L’inserzione insinua : “Tu sei migliore di lui. Sei più bello, più intelligente. Dimostralo”
L’inserzione esclama: “Quarant’anni compiuti e sei stufo del tuo lavoro? Scopri come cambiare vita!”. E insinua (ma non si legge): “Tu sei migliore di lui, che non lascerà mai il suo lavoro. Sei più bello, più intelligente. Dimostralo”. Non ho mai seguito il link. Chissà dove porta. Forse in un’altra dimensione. In un mondo distopico abitato da imprenditori di sé stessi. Forse porta allo scaffale ebook del più grande venditore di libri online, che mi assilla anch’esso con l’offerta di testi come Quasi quasi mi licenzio, Adesso basta. Lasciare il lavoro e cambiare vita, Cambiare il lavoro eccetera eccetera.
Cosa c’è che non va in me, caro Davide? Perché sono l’obiettivo di queste azioni di marketing? Un giorno ho acquistato uno di questi libri a 0,99 centesimi. L’ho letto tutto e non ci ho trovato nessuna risposta, nessuna indicazione, nessuna soluzione. Solo storie. In genere storie di persone abbienti. La manager che apre la pasticceria. L’avvocato che si dà alla vela. La consulente finanziaria che diventa blogger e madre di due gemelli. Sono libri che raccontano i cambiamenti di vita dei benestanti. Dubito che un metalmeccanico scriverebbe mai un libro simile. O un operatore di call center. O un precario della conoscenza. Un operaio, di solito, difende il suo posto, lo presidia, lo occupa, semmai lo conquista come i dipendenti argentini della Zanon; ma non lo lascia. Un operaio, più probabilmente, viene licenziato.
Quanto a me, perché Facebook non mi lascia in pace? Io non ho intenzione “quasi quasi” di licenziarmi. Non vado in barca a vela. Non cucino crostate.
Uno strano libro
Caro Davide,
ho letto il libro di una scrittrice messicana: Vivian Abenshushan, Fate fuori il vostro capo: licenziatevi! (il titolo originale è: Escritos para desocupados), pubblicato in Italia in copyleft da Eris, e tradotto da Francesca Bianchi. Una raccolta – a tratti geniale, spesso aforistica, apodittica, tra il saggio, il diario, la narrazione – dalla vita di una donna che ha deciso di non lavorare più (almeno in modo ortodosso). Potrei riempire pagine e pagine di citazioni da questo libro. Ne scelgo per te solo alcune:
“Lavorare e morire sono le punizioni divine per aver assaggiato il frutto proibito”
“Lavorare e morire sono le punizioni divine per aver assaggiato il frutto proibito. […] Negli ultimi cento anni abbiamo assistito a una delle conversioni più infide della storia, la trasformazione della condanna biblica (‘Lavorerai col sudore della tua fronte’) in scelta volontaria di autoflagellazione (‘Lavoro dunque sono’)”.
“La vita dovrebbe essere sempre così, ho pensato, semplice, modesta, oziosa e con il tempo per poter essere noi stessi”.
“Non bisogna rendere il lavoro più umano. Bisogna farlo sparire. Solo allora potremo tornare a esso in maniera ragionevole, non più di quattro ore al giorno. […] È questo il monito contenuto ne Il diritto alla pigrizia di Lafargue, in Elogio dell’ozio di Russell e in Del paro al ocio [Dalla disoccupazione all’ozio] di Racionero, un pamphlet e due saggi (La Trilogia della Pigrizia) che offrono un’alternativa concreta alla concezione dominante del lavoro, anche se per attuarla sarà necessario affrontare una guerra culturale di vaste dimensioni, come segnala Racionero, una lotta tra i valori mediterranei e umanisti (il piacere, la moderazione, l’otium cum dignitade, ozio con dignità) e lo spirito del guadagno e della competizione dei ‘barbari del nord’, eredi del puritanesimo calvinista”.
“Noi invece, come nostro padre, adoravamo il letto. E l’adoriamo ancora oggi, il fascino della posizione orizzontale, la saggezza del riposo”
“Noi invece, come nostro padre, adoravamo il letto. E l’adoriamo ancora oggi, il fascino della posizione orizzontale, la saggezza del riposo. Tendenza depressiva? In parte. Sintomo di un fisico debole e senza energia? Quasi mai. Il fatto è che quando eravamo a letto il mondo non poteva pretendere niente da noi. In posizione fetale o completamente spaparanzate, quasi oscene, eravamo davvero noi stesse; la federa del cuscino diventava la bandiera con cui rivendicavamo il nostro diritto alla solitudine. Poiché non esiste spazio più accogliente né luogo in cui l’individuo possa sentirsi più libero del proprio letto. Da lì riesce a dominare tutto il suo regno mentale. Il letto è strumento di sovversione, soprattutto quando se ne fa buon uso. Non mi stupisce che la realtà complotti contro di lui con tanta veemenza. Tutti i suoi detrattori predicano invano: dal letto si entra e si esce, ma alla fine ci si torna sempre. Credo che le migliori idee che ho avuto (direi quasi le uniche) le ho concepite lì, nel mio letto”.
Dunque un elogio della pigrizia (quella che fa sognare, mentre il lavoro fa ‘solo’ pensare, scrive l’autrice citando Jules Renard), del distendersi a letto come luogo di creatività, del fare tardi agli appuntamenti, che non le ha però impedito di fare molte cose (“Dopo soli pochi mesi dall’inizio della mia disoccupazione volontaria – scrive Abenshushan – la voglia di vivere era tornata con tale impetuosità che mi sono buttata a capofitto nella scrittura, ho fondato una casa editrice e ho persino avuto un figlio. Che nessuno venga a dirmi che l’ozio non è fecondo”).
Di che vivere se non si lavora?
Lascio l’affascinante Abenshushan alla sua battaglia culturale e ti pongo una domanda (cui nessuno sa, o vuole, davvero rispondere): di che vivere se non si lavora? E la società come funzionerà se nessuno crea? Chi pagherà le pensioni? Chi foraggerà i sistemi di welfare e sanità? Chi produrrà le merci? Chi avrà i soldi per comprarle? Basterà costruire e comprare di meno, come prescrive Serge Latouche?
Dobbiamo aspettare i robot?
Ah, Davide caro, amico mio, lo so, questa lettera non ha né capo né coda. Non ha struttura. Non è una lettera. È un po’ come la vita. La mia vita, almeno, è così. Perdonami se passo da un argomento all’altro senza la forza di un ragionamento, senza tentare una logica né darmi il coraggio di avanzare una tesi. Senza versare neppure una lacrima di empatia per tutti quei giovani (ormai quasi la maggioranza di loro) che ancora non hanno mai lavorato, che sopportano stage e voucher e youth guarantee, le parole straniere che li prendono in giro.
Pochi mesi fa, sulla London Review of Books, John Lanchester, recensendo un paio di libri sul tema, prediceva l’arrivo delle macchine: entro i prossimi vent’anni, scriveva, il 47% della forza lavoro umana sarà “ad alto rischio” di sostituzione con hardware e software. Bibliotecari, giornalisti, analisti finanziari, commercialisti, operai… Ora arriva un altro libro: Rise of the Robots. Technology and the Threat of a Jobless Future, di Martin Ford. Barbara Ehrenreich, recensendolo sul New York Times, coglie perfettamente le “conseguenze umane della robotizzazione”: disoccupazione, sottoccupazione, lavori part-time invece che impieghi a tempo pieno, mansioni inferiori al livello educativo; insomma la povertà e l’emarginazione. L’ex ceto medio messo ai margini – letteralmente – dal sistema delle macchine e da una produzione (impostata da élites umane, corporazioni, multinazionali, i Grandi Ricchi del pianeta) che non sa più cosa farsene dell’uomo.
Che fatica. Quanti problemi e quante poche soluzioni per il tuo amico di mezza età che desidera solo vivere e lavorare in pace.
Adesso ti lascio. È tardi. Ma rispondimi. Fammi sapere se ti ho importunato o se quello che scrivo ha un qualche senso per te. E se posso continuare a scriverti. E se possiamo aiutarci».