L’isola di Kalief

L’isola di Kalief è un libro illustrato per bambini dagli otto anni in su, pubblicato da Orecchio Acerbo a marzo 2021. Il libro, per il quale ho scritto la storia, nasce da un’idea di Fausta Orecchio, e ha preso vita grazie alle illustrazioni di Mara Cerri. Ho sempre ammirato da lontano il lavoro di mia sorella e dei suoi compagni di avventura in Orecchio Acerbo, ma l’idea di lavorare a un libro con loro non mi era mai venuta in mente. Qualche anno fa se n’è iniziato a parlare. Fausta accennò alla storia di Kalief Browder. Mi chiese di guardare un documentario (Time: The Kalief Browder Story, Netflix 2017) su questo ragazzo coraggioso e sfortunato. Disse che dovevamo fare un libro su di lui. Disse che era un eroe e i bambini lo avrebbero amato. Dopo aver visto il documentario e approfondito la sua storia, anche io mi convinsi che Kalief fosse un eroe. Ma la storia era così straziante, così ingiusta. La storia conteneva tutte le ingiustizie e la violenza che un ragazzo potrebbe subire, e tutto il coraggio che un ragazzo potrebbe trovare dentro di sé.

Kalief Browder (1993-2015) era un giovane del Bronx, un quartiere di New York. Nel 2010, a 16 anni, fu arrestato per il presunto furto di uno zaino. Kalief rifiutò di dichiararsi colpevole, perché non lo era. Nei tre anni successivi fu detenuto nel penitenziario di Rikers Island senza ottenere un processo. Rimase in isolamento per circa due anni, e per trecento giorni consecutivi. Le Nazioni Unite definiscono “tortura” qualsiasi periodo superiore a quindici giorni consecutivi trascorsi in isolamento.

TRE ANNI IN PRIGIONE. PER IL FURTO DI UNO ZAINO. CHE NON AVEVA RUBATO.

Pensai: “Un libro per bambini? È impossibile”. 

Ma forse mi sbagliavo.

Cercai di trovare una chiave. Mi venne in mente l’idea di una bambina del futuro, che abita un tempo e una città resi migliori dalla battaglia di Kalief. E che racconta la storia del ragazzo coraggioso. Forse, in questo modo, i bambini avrebbero potuto innamorarsi di un eroe.

Spiega l’editore nella sua sintesi del nostro lavoro:

“Tutto è già successo. Rikers Island era una prigione grigia e la città puzzava di gas: quello era il tempo di Kalief. Il tempo in cui fu accusato di aver rubato uno zaino che non aveva rubato. A raccontare la sua storia è una bambina che, in un futuro lontano, vive felice in quella stessa isola, così diversa da prima: piena di colori e piante mai viste. Kalief come molti altri afroamericani, finì ingiustamente in quella prigione. Niente processo, solo violenze e solitudine. Liberato per mancanza di prove, continuò a professarsi innocente e diventò un simbolo di riscossa che, racconta la voce narrante della bambina, mise fine a quell’orrore. L’isola nella sua nuova bellezza porta il suo nome, perché è stata la sua forza a cambiare le cose. Nella realtà, anche se Kalief non ce l’ha fatta, grazie alla sua lotta, nel 2014 il regime di isolamento per i minori è stato abolito, e nel 2026 è prevista la chiusura definitiva della prigione di Rikers”.

Kalief era afroamericano. Subì una violenza sistemica, razzista e classista. Che un bianco, italiano, come me potesse comprendere fino in fondo la sua pena e raccontarla è quantomeno, eufemisticamente, “complicato”. Mi rendo conto delle difficoltà. È un abisso che sarebbe sovrumano, e presuntuoso, colmare. Credo solo – e lo scrivo con tutta l’umiltà possibile – che un editore, un’artista e un autore abbiano il diritto di raccontare una storia nella quale credono. L’unico e ultimo metro di giudizio è la critica del lavoro compiuto. 

Per tutti noi quello che contava davvero era rendere omaggio a Kalief e alla sua battaglia. Una battaglia che non finisce. Akeem Browder, fratello maggiore di Kalief, si è preso sulle spalle l’eredità morale e politica lasciata dal fratello: è il presidente della Kalief Browder Foundation, un’associazione senza scopo di lucro da lui fondata per «cambiare il modo in cui sono visti i giovani di New York, prevalentemente afroamericani e provenienti da quartieri poveri, privati dei diritti civili. L’associazione si impegna a insegnare la consapevolezza socio-emotiva ai giovani colpiti da traumi e considerati “a rischio” dagli standard di New York».

Per approfondire: