
«Quindi, ventesimo giorno dell’insurrezione. Siamo nel nuovo rifugio, ai piedi dei pilastri. In tempo di guerra c’è quasi sempre un ritorno al matriarcato. Figurarsi con questa guerra. E figurarsi con questo scendere sempre più giù, sotto Varsavia (in questo formicaio rifugesco), con quest’insurrezione. Fu un ritorno-esplosione. Di matriarcato. Cantinesco? Cavernicolo? Che differenza fa. Mucchi di persone. Comandano le madri. Starsene sotto terra. Non ti scoprire! Non farti vedere! Pericolo di morte. Sempre. Anche a non farti vedere. E tutto questo cavarsela. Un bene che abbiano inventato il carburo e le lampade a carburo e le candele. E anche le galline spennate, per i piumini. Armi appena un po’ meglio di quelle delle caverne. Ma mica tanto. E rare. Per gli eletti. Scorte di pappa. Che diminuivano, però, fino a scomparire.
Perché le scorte c’erano, eccome se c’erano. Selvaggina? Quella non c’era. Perché quella grande era già stata mangiata. E quella piccola? Chi ce l’aveva, il suo beniamino, se l’era portato giù e lo teneva con sé. L’animale. Ma di rado. Particolarmente nella Starówka. O qui ce n’erano di meno, in assoluto. O non se li erano portati. Sotto terra. O se li erano portati ed erano spariti. Ciò che non era scappato, volato, bruciato, caduto, morto, era stato cacciato. I gatti: scomparsi. I cani: scomparsi. Di quelli che svolazzano, nemmeno a parlarne. L’unica cosa, quel grillo nella parete, li al buio. E poi – a settembre – i pidocchi».
Miron Białoszewski, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, a cura di Luca Bernardini, Adelphi, 2021, p. 106.
