Ne «Il sol dell’avvenire» ci avrei visto bene Di Vittorio

Buongiorno, ho letto in giro tante opinioni sull’ultimo film di Nanni Moretti, chi l’ha apprezzato, chi no, ma comunque se ne parla molto e questo è già un sintomo che il film molto contiene, sennò mica se ne parlerebbe. Anch’io ho visto “Il sol dell’avvenire” e l’ho apprezzato, quindi, per quel che vale, consiglio di vederlo. A meno che non si appartenga alla categoria degli allergici a Moretti. Scopro che esiste questa categoria e rispetto chiunque ne faccia parte, ma certo fatico a comprenderla, perché ho sempre stimato Moretti anche al di là del suo cinema, o meglio anche per i frammenti etici e politici che ha disseminato nella sua filmografia, restituendomi un punto di vista contrario alla mentalità prevalente nel mio Paese (“le parole sono importanti”, tanto per dire). Quindi per me Moretti, non mi vergogno a dirlo, è stato un “fattore educativo”, una specie di pedagogo.

“Il sol dell’avvenire” (che, ripeto, mi è piaciuto) mi ha lasciato l’impressione di uno di quegli LP che si ascoltavano tanto tempo fa, dei quali alcune canzoni ti piacevano molto e altre meno, e mentre il disco ruotava sul piatto si alzava la puntina per tornare al pezzo preferito, saltandone invece altri. Un film di brani, insomma, ma non di episodi, un concept dove tutto si deve tenere. Se dovessi scegliere il mio brano preferito punterei sulla storia del nuotatore dal racconto di Cheever (non capisco perché Moretti rinunci spesso a completare le sue idee più belle, incapsulandole a mo’ di frammento e matrioska in film che parlano d’altro, peccato).

Ma, purtroppo per me, perché riconosco di essere malato di questo, devo scegliere il 1956. Si conteranno sulle dita di una mano infortunata, le persone che sono andate a vedere “Il sol dell’avvenire” perché racconta il 1956. Io sono uno di loro. L’anno 1956 mi tormenta da moltissimo tempo. Se io fossi il personaggio di un romanzo di Antoine Volodine, apparterrei a una setta di “Esumatori del 1956”. Gente che ogni tanto si riunisce in una cantina umida e sviscera quell’anno con tutte le sue possibilità non avverate. E ho il sospetto, a questo punto, che della setta farebbe parte anche Nanni Moretti. L’anno della grande occasione perduta dal comunismo (e dal socialismo). L’anno in cui tutto poteva cambiare. Un tema incredibilmente fecondo per ogni genere di what if. 

Il ‘come se’ attraversa anche “Il sol dell’avvenire”, e l’ha reso per me affascinante e godibile. Però su una scena finale, il corteo di comunisti italiani che si emancipano da Mosca, ho una piccola obiezione. Non starò qui a precisare cosa succede nel film, ma, insomma, vogliono dire addio all’Unione Sovietica perché simpatizzano con gli operai ungheresi falcidiati dai carri armati di Mosca, e sfilano per le vie di Roma. I comunisti italiani del 1956. L’unico idolo politico del corteo, portato da alcuni di loro in una grande foto, è Lev Trockij, il grande antagonista di Stalin, assassinato su suo mandato nel 1940, mitico eroe di un comunismo diverso e sconfitto. 

Ora, magari qualche storico mi correggerà, ma a me sembra un po’ implausibile. Qualcun altro mi dirà: “ma che ti frega? È un what if”. Secondo me, però, la controfattualità con un minimo di precisione storiografica funziona meglio. In una narrazione what if vale la pena di assecondare, e rilevare, possibilità non avverate della storia, potenzialità mortificate. Inoltre, “Il sol dell’avvenire” non è “Bastardi senza gloria”. La controfattualità di Tarantino me la posso godere senza pensarci troppo. Ma con Moretti è una faccenda diversa. Lui è un intellettuale e, che lo ammetta o no, è anche un “homo politicus”, e mi costringe per quel che posso ad approfondire (ma forse, chissà, Moretti è più giocoso di quanto io creda, visto che ha inserito nel film una bottiglia di acqua minerale con etichetta “Rosa Luxemburg”).

Dall’Archivio nazionale della Cgil

Molto probabilmente mi sbaglio, figuriamoci, non sono un sovietologo né un “comunistologo”, ma quel ritratto di Trockij esposto nel corteo non ce lo vedo proprio. Sebbene il XX congresso del Pcus avesse adottato (senza però attribuirgliele apertamente) molte delle sue critiche al sistema staliniano, Trockij era ancora un innominabile per un militante di base comunista ortodosso, era l’eponimo di una deviazione, un piccolo diavolo confinato in un aldilà eretico. La riabilitazione e rivalutazione di Trockij era però già in movimento. “Il profeta armato”, primo volume della leggendaria biografia scritta da Isaac Deutscher, uscì in Italia proprio nel 1956 per i tipi di Longanesi (non esattamente un editore della galassia Pci). Difficile, però, che quel libro avesse già infiltrato la base delle sezioni comuniste. Insomma non siamo nel 1968 o nei Settanta. Ma capisco che Trockij sia un feticcio controfattuale per Moretti, classe 1953, quindi appartenente a una generazione comunista successiva, molto più aperta all’eterodossia.

Però, in un corteo italiano seppur controfattuale del 1956, ci devi mettere i miti del regista o i miti di chi in quel corteo avrebbe potuto sfilare? Io risponderei: “la seconda”. E chi sfila in quel corteo? Gente che protesta contro i carri dell’Armata Rossa fondata da Trockij. Ad ogni modo, mettiamo che io mi sbagli, e sarà probabilmente così: ma allora, accanto a Trockij, mi avrebbe fatto molto piacere vedere sollevare anche l’immagine di Giuseppe Di Vittorio, il vero eroe del what if comunista e socialista nel 1956 italiano. Lui e la Cgil da lui guidata. Gli unici, ahimè per poche settimane, a condannare l’invasione sovietica di Budapest. Di Vittorio fu per un breve istante l’alternativa a Togliatti. Fu la possibile guida di un comunismo diverso e di una sinistra riunificata. Infine messo a tacere, come si sa. 

Quel Di Vittorio, dal punto di vista nostro presente, e quindi di un film come “Il sol dell’avvenire”, era già controfattuale, era già un come se. Ed è questo il vero fascino del what if: sono sempre battaglie perdute di scarto, scintille spente da un soffio di vento, bucce di banana pestate sul traguardo. Non sono sogni proibiti, sono cose che potevano davvero succedere! E uno ogni tanto ci ripensa – almeno, noialtri “Esumatori del 1956” nelle nostre cantine lo facciamo -: “ah, se fosse andata così…”. Un po’ come in “Palombella rossa”: “tiro a destra o tiro a sinistra? Ah, se avessi tirato a sinistra, avrei segnato”. Vado a memoria, non ricordo bene se avrebbe dovuto tirare a destra o a sinistra, ma insomma ci siamo capiti. 

E comunque sempre lì si finisce, in un film di Nanni Moretti; spero che ne faccia altri cento.

[«In quegli stessi giorni capitò che Di Vittorio, il quale abitava nel mio stesso palazzo sulla via Cristoforo Colombo, al piano sotto al mio, mi accompagnasse da Montecitorio a casa sulla sua automobile. Parlammo naturalmente dell’Ungheria. Quando stavamo per arrivare fu travolto dall’emozione: “Quelli sono regimi sanguinari! Sono una banda di assassini!” diceva con la voce rotta dal pianto. Fui sconvolto nel vedere quel macigno, quel gigante che singhiozzava», Antonio Giolitti, “Lettere a Marta”, il Mulino, Bologna 1992, pp. 99-100.]

[In alcune cantine si riunisce un’altra setta, gli “Esumatori del 1929”. Immaginano sollevazioni e rivolte a Berlino. I loro cortei controfattuali sono pieni di ritratti di Trockij e Rosa Luxemburg!]

[In Storia aperta, nel capitolo Pietro il rosso, ho immaginato, si parva licet, un Pci controfattuale preso in mano da Di Vittorio nel 1956.]