Biblioteche e homeless. Seattle, San Francisco, Roma

Check in nella biblioteca pubblica di Seattle
Check in nella biblioteca pubblica di Seattle

Le biblioteche americane provano a reinventarsi. A rischio di estinzione, con un volume di consultazioni librarie che si assottiglia, e la minaccia della cultura digitale che incombe, le library aprono le porte ai senza tetto (non le hanno mai chiuse, in effetti), ai disoccupati, agli immigrati. Diventano dei community center.

Scrive Massimo Gaggi sul Corriere della Sera (La biblioteca sociale. Non solo libri, ma lavoro e integrazione, 23 gennaio 2011) che le biblioteche nello Stato di New York, ad esempio, svolgono

“attività di sostegno ai disoccupati in cerca di lavoro. I tavoli delle ‘library’ diventano l’ufficio provvisorio di chi ha perso l’impiego, i computer e le connessioni gratuite a Internet il canale per presentarsi ai possibili datori di lavoro”.

Sempre meno libri aperti, sempre più computer accesi, e i bibliotecari pronti, scrive ancora Gaggi,

“ad aiutare i disoccupati insegnando loro come si costruisce un curriculum o quali sono gli errori da non commettere quando ci si presenta in azienda per un colloquio”.

Un altro esempio: le biblioteche del Minnesota, racconta Gaggi,

“sono, invece, divenute il principale polmone dell’integrazione culturale delle comunità di immigrati nella società americana: ‘latinos’ , vietnamiti, somali, hmong (…) frequentano abitualmente le biblioteche di Minneapolis”. E “sono ormai molte, da San Francisco alla Florida, le biblioteche che non solo forniscono (durante il giorno) un riparo ai senzatetto, ma organizzano per loro cineforum”.

Insomma, spiega l’editorialista del Corsera:

“i bibliotecari si rimboccano le maniche per cercare di individuare un nuovo ruolo, una loro nuova utilità sociale, prima di finire anch’essi nella lista dei disoccupati”.

Sala di lettura nella biblioteca pubblica di Seattle
Sala di lettura nella biblioteca pubblica di Seattle

Costruita nell’arco di un decennio (1998-2008) sotto la guida dell’architetto olandese Rem Koolhaas, la Biblioteca pubblica di Seattle è uno spettacolo per gli occhi di chi la visita. Sembra di stare al Maxxi di Roma. La città ne va molto fiera.

La si percorre un piano dopo l’altro usando scale mobili color giallo psichedelico o ascensori più grandi di un appartamento, spingendo porte di vetro, entrando in stanze di vetro o enormi sale perimetrate da cristallo e acciaio.

Fino ad arrivare all’ultimo piano, il cui tetto è uno sguardo su nuvole e grattacieli.

I libri non mancano. Quelli non-fiction sono organizzati col sistema della spirale (Books Spiral): un midollo che attraversa il nucleo della biblioteca promettendo di non esaurire mai lo spazio per i nuovi accessi.

C’è una bella collezione di storia e cultura nativa dello Stato di Washington. Ma in effetti ha ragione Gaggi: si vedono soprattutto computer. E senza tetto. Può capitare di prendere l’ascensore con uno di loro, ritrovandosi imprigionati in uno spazio chiuso che si colma rapidamente di homeless smell. Sono gli inconvenienti che occorrono a chi frequenta le biblioteche, in tutto il mondo.

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Tra gli scaffali della biblioteca di San Francisco
Tra gli scaffali della biblioteca di San Francisco

Qualche centinaia di chilometri più a sud, la Biblioteca pubblica di San Francisco è meno vistosa e sovrana, ma la sua accoglienza vince sull’astratta e fredda bellezza della cugina nordica. Sale calde, scaffali avvicinabili col sistema della consultazione fai da te, tavoli che mettono voglia di sedersi e trascorrere lì dentro il resto della propria giornata, se non della vita.  Ma non è che sia un posto mediocre: la bellezza è di casa anche qui. Una bellezza che, di questi tempi, ha un estremo bisogno di spazi e vuote volumetrie.

Giovani ispanoamericani si aggirano tra le sale della Sfpl coi loro laptop a basso prezzo, o semplicemente a mani vuote, privi di un lavoro o di un posto dove andare.

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Interno della biblioteca di San Francisco
Interno della biblioteca di San Francisco

Sinceramente, non saprei immaginare una biblioteca senza un qualche strano e disadattato ospite. Molti anni fa, a Roma, frequentavo quasi ogni giorno la Biblioteca del Goethe Institut. Ma c’erano utenti più abituali di me: una coppia di polacchi, lui più anziano, canuto, lei ancora giovane, non brutta, con dei lunghi capelli neri, lunghi fino ai fianchi. Vestivano entrambi di bianco. Camicia, pantaloni, scarpe. Tutto bianco. E si presentavano sempre con le loro buste di plastica. Lui s’infilava nella sala multimediale per guardare qualche film. Lei… lei non ricordo cosa facesse. Una bibliotecaria mi spiegò che erano senza tetto: “Non possiamo cacciarli, ma abbiamo spiegato loro come devono comportarsi”. Mi sembrò una risposta molto saggia e civile. Degna di una biblioteca.

Anche alla Biblioteca di storia in via Caetani venivano a trovarci un paio di dropout.

Un vecchio piuttosto maleodorante, una specie di Capannelle traspirante acido urico: sceglieva il suo posto, prendeva un quotidiano e iniziava a leggerlo accuratamente, mentre intorno a lui la sala si svuotava. Quando l’emeroteca fu trasferita al piano terra, lo persi di vista.

Un altro: più giovane, pensava ad alta voce, ordinava libri di storia del Risorgimento, riempiva l’armadietto di tutti i suoi averi: uno zaino, un paio di bottiglie, i giornali dei quali forse si sarebbe coperto in qualche angolo la notte. Anche lui puzzava, of course. Ed era più aggressivo della media. Dopo uno scatto d’ira, fu cacciato dalla biblioteca e gli fu inibito l’accesso. Un errore. Le biblioteche devono restare aperte a tutti, anche ai barboni.

Prima che qualche ministro le chiuda per sempre.