Le altre parti della biografia
Per lui inizia l’epoca che vale per tutta una generazione che fu giovane sotto il fascismo e ora un’altra generazione la tiene in pugno. Sinceramente rivoluzionari, recuperati da Togliatti, sopportati da molti, odiati da altri e chiamati a redimersi: al gruppo appartiene il fantastico giornalista che diviene Felice Chilanti, nel dopoguerra autore di inchieste storiche pubblicate su un giornale che nasce con lui.

Nel ’49 infatti s’associa alla fondazione di Paese Sera dopo che Togliatti ha deciso di creare un quotidiano uguale a quelli borghesi: «sesso, sangue, denaro» ma «dentro ci mettiamo i nostri ideali». Ricorda Chilanti: «per quella difficoltosa battaglia fummo chiamati noialtri giornalisti esperti, ex della stampa borghese rotti al mestiere, per rovesciare i fatti addosso alla società: da quale misera condizione viene la donna assassina ecco la sua storia; e lui, l’amante complice, meridionale immigrato travolto da Milano negli affari…». Giornale straordinario che farà luce sullo scandalo Montesi e dove Chilanti pubblica un’inchiesta dietro l’altra e tutte lasciano il segno: chi sono i mandanti della strage di Portella della Ginestra? Chi stava nella banda Giuliano? Chi è il mafioso Calogero Vizzini? Zone scure di realtà che illumina con la sua penna, col suo andare in giro a domandare, investigare fino a scoprire Liggio, dunque la mafia.
«Sono stato fortunato ed anche incosciente. Oggi non andrei in giro per i viottoli di Corleone, non entrerei nelle case a chiedere notizie di Luciano Liggio. Sono stato aiutato, guidato, informato principalmente dai comunisti di Corleone, giovani e vecchi.» Nella tipografia de L’Ora di Palermo, quotidiano legato a Paese, scoppia una bomba al tritolo ma Chilanti non si ferma, scappa dal passato, divora il presente e corre incontro al futuro. Dirà tempo dopo: «avevo per anni indagato, interrogato esperti, poliziotti, intuito dedotto collegato argutamente indizi rapporti riservati, affari racket e omicidi, ero stato minacciato di morte…»
Viaggia in Cina e Russia, pubblica corrispondenze sul disgelo post staliniano, racconta i crimini del totalitarismo e una notte lo chiama Pietro Ingrao direttore de l’Unità e l’ammonisce: «ti rendi conto, disse sconvolto, frughi coi ferri roventi dentro la pupilla degli occhi nostri, non abbiamo altri occhi». Ma questo è Chilanti, prendere o lasciare. Ha conosciuto i fascisti e poi li ha combattuti. Adesso starà zitto sui sovietici? «Di me non potevano fidarsi per l’anarchismo di tutta la mia vita (…) non sapevo prendere ordini.» Pregio o difetto che nel ’56, quando il partito giustifica la repressione sovietica in Ungheria e censura, riduce al silenzio il dissenso interno, gli deve esplodere addosso come un herpes e l’induce a fare il punto, ora che ha compiuto quarant’anni, a fare raffronti, a discernere il giusto dall’erroneo.
«Il giornalaio di via del Gambero sputa sui sampietrini quando domando “l’Unità”.» Forse uno di quei giorni gli viene in mente che prima o poi dovrà parlare e l’amarezza del ’56 sta in questa memoria: «io li avevo amati quei capi dell’antifascismo, per anni non osai pensare a loro complicità nei crimini di Stalin e di Beria», ma «il partito ufficiale cominternista portava in Comitato centrale, in parlamento i più disponibili, gli smemorati; noi, i pochi in rimorso consapevole eravamo strumento cieco».
Però è un fatto medico, organico, che lo spinge a vuotare il sacco. L’ultima avventura della sua vita inizia a Reggio Emilia nel ‘60, dove Chilanti s’ammala: mentre «ragazzi in blu jeans feriti uccisi non si arrendono, le mie corrispondenze le detta il cronista locale, la stenografa non ode più la mia voce». È un cancro alla laringe: gliel’asportano tutta, e «nella ferita della coltellata» mettono «la cannula per respirare». Non è la stessa cosa. Al posto della parola un raschio. Là dove c’è il collo un foulard. Non può più intervistare, domandare, dettare. Quindi smette d’essere inviato.
Lascia l’impiego stabile a Paese Sera, prende commiato da amici e colleghi e dopo una crisi che si può solo immaginare e compatire, dopo lo spavento, Chilanti decide di farsi scrittore. Ma non scrittore qualsiasi. Scrittore di se stesso, romanziere di un lungo viaggio nel fascismo: «scriverò romanzi d’ora in poi per essere uomo debbo diventare scrittore». Narrare diventa il «riscatto» della sua vita e a distanza di cinque anni tra il ’65 e il ’69 pubblica tre libri dall’editore Scheiwiller dove col disordine del flusso di coscienza illustra il bambino che fu, e poi il giovane e l’adulto.
Terminata la fatica chiarirà: «ho voluto proprio “spiegare il fascismo” cercandolo in me nella mia autobiografia. Ormai sono giunto al convincimento che in Italia (…) nessuno può onestamente “parlare d’altro” accantonando la propria storia, la propria persona». Racconta gli errori, gli entusiasmi, la tragedia e di quando Felice e tutti i giovani come lui uscirono dalla caverna e a quale prezzo. Racconta l’Italia e naturalmente sente su di sé «gli occhi del partito», “Chilanti ne ha combinata un’altra delle sue”, il telefono smette di squillare, alcuni non gli parlano più ma lui insiste e dopo il primo libro il secondo, e dopo il secondo il terzo: «non fummo lebbrosi né delinquenti», «andammo alla guerra di liberazione ma udimmo qualcuno che disse: hanno scelto il cavallo vincente. Li osservavo ai loro tavoli, a via delle Botteghe Oscure e nei loro sguardi quel sedimento indistruttibile: sospetto dietro sorriso, dopo estinzione di condanna per amnistia, la fiducia elargita».
Un giorno nella libreria Rinascita entrò un funzionario del Pci «vecchissimo, mummificato» e Chilanti lo indicò al collega Fidia Gambetti (che viaggiava con lui nel regime, ma questa è un’altra storia) e gli disse: «quando lui era comunfascista al tempo del patto con Hitler, noi eravamo fasciocomunisti e volevamo finirla col capitalismo». Allora è chiaro, è la resa dei conti. Generazione contro generazione. Colpevoli contro censori. A nome di tutti i sacrificati, gli accantonati e inaffidabili, Chilanti punta il dito e accusa: neppure voi che siete senza macchia avete combinato granché. Ma è un calcolo amaro: «chi ero adesso al banco di questo tavolo? Non avevo catturato Mussolini nel 1941, non puntai la pistola alla sua schiena (…); non avevo ammazzato i grandi capitalisti di Roma la mattina della liberazione coi miei compagni di Bandiera Rossa». E poi: «io, in me, riflettevo alle persone del mio romanzo (…) oppresse, coartate, condannate a pensare operare per violenza opere e pensieri che volevano liberamente svolgere. In fondo, dissi (…) io sono Praga». È un resoconto che mette pena e la partita non ha vincitori, anzi già disegna le macerie della sinistra. Però un uomo, adesso un vecchio, s’alza dal bugigattolo delle sue fatiche ed è fiero: «ora sono proprio sicuro che un verso, un periodo di narrativa sono atti della resistenza dell’uomo: la resistenza permanente».
Scrive l’ultimo articolo su L’Ora e l’intitola Città della speranza: racconta il 29 novembre dell’81 a Palermo, giornata dei giovani in piazza contro i missili di Comiso. Tre mesi dopo, il 26 febbraio dell’82, muore a Roma.
Riferimenti bibliografici minimi
I periodi tra virgolette « » sono tratti dai tre romanzi di Felice Chilanti (Ponte Zarathustra, Il colpevole, Ex), raccolti in La paura entusiasmante, Milano 1971; e dai Carteggi 1942-1978, a cura di Gloria Chilanti e Sergio Garbato, Rovigo 2004.
Chi vuole approfondire la biografia di Chilanti può consultare le voci a lui dedicate in Dizionario biografico degli italiani, vol. 34, 1988, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, pp. 721 sgg.; Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza, vol. 1, Milano 1968, p. 537. Per il complotto si veda Galeazzo Ciano, Diario. 1937-1943, Milano 1980, p. 602. Sui giovani e il dissenso nel fascismo si vedano il classico di Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano 1962; e poi Ettore A. Albertoni, Ezio Antonini e Renato Calmieri (a cura di), La generazione degli anni difficili, Bari 1962; Marina Addis Saba, Gioventù italiana del littorio: la stampa dei giovani nella guerra fascista, Milano 1973; Ugoberto Alfassio Grimaldi, Cultura a passo romano: storia e strategie dei Littoriali della cultura e dell’arte, Milano 1983; Aldo Grandi, I giovani di Mussolini: fascisti convinti, fascisti pentiti, antifascisti, Milano 2001; Mirella Serri, I redenti, Milano 2005 (saggio che ha suscitato un interessante dibattito sul Corriere della Sera, del quale mi limito a citare l’intervento di Luciano Canfora, Togliatti fu il primo a capire gli intellettuali in camicia nera del 15/9/2005); Paolo Buchignani, La rivoluzione in camicia nera: dalle origini al 25 luglio 1943, Milano 2006. Le affermazioni di Chilanti sulla razza italiana sono tratte da ID. La missione della razza italiana, in P.Orano, Inchiesta sulla razza, Roma 1938, p. 85 (citato in Serri, I redenti, p. 69). Su Bandiera Rossa a Roma si veda Wikipedia.