Le altre parti della biografia
Tornato a Roma si scopre ancor più rivoluzionario di prima: diventa a pieno titolo giornalista quando l’assumono come redattore al Lavoro fascista dove, tra gli altri, scrive l’articolo Difesa del sindacato. S’impegna in una battaglia per la distribuzione della ricchezza, scrive col collega Ettore Soave (economista e vicino a Rinaldo Rigola) il saggio Dominare i prezzi e superare il salario.
Poi di nuovo su La Stirpe invoca il ritorno alla funzione rivoluzionaria del sindacato contro quella borghesia che «ammanta di solidarietà la compressione salariale e la rinuncia a una più alta giustizia sociale». Riprende Spirito nel sostenere che dopo la guerra d’Africa deve aprirsi una fase sociale, s’ispira alla Carta del Carnaro con cui nel ’20 D’Annunzio e Alceste De Ambris propugnavano un nuovo ordine sindacale, corporativo ma nazionalista. Insomma sta maturando un diverso Chilanti: riottoso, insoddisfatto, anticapitalista, anti-tutto.
Scalpita, e insieme a lui molti altri della leva cresciuta nel frondismo bottaiano: gli universalfascisti di Zangrandi; i giovani che si cimentano ai Littoriali (anche Chilanti, vincendoli) e consapevoli o no criticano, cospirano; e i comunisti come i fratelli Amendola già infiltrati che indirizzano, promuovono, incoraggiano. La Seconda Guerra s’avvicina, il fiato di Hitler appesta l’Italia ed esplode il dissenso: ogni totalitarismo, prima o poi, deve fare i conti con questi globuli bianchi che si svegliano e ne attaccano i germi. Pure Chilanti sta dentro al nuovo umore ma come gran parte dei suoi coetanei gli mancano gli strumenti per interpretarlo. Privo della cultura borghese liberale, sprovvisto del sapere necessario, lui si agita, contesta ma ancora non esce a rivedere le stelle, si sporca le mani nel Truman Show fascista, come un minatore dopo una frana scava verso l’alto cercando la salvezza ma intanto gli cresce sulle spalle la Colpa che una vita non basterà a redimere: quella d’essere stato giovane nel fascismo, e dunque fascista.
Si dice che per riscattarsi sia necessario toccare prima il fondo e lui nel ’38 lo fa, quando scrive su un libercolo collettaneo che “i lavoratori seguiranno il Regime nella politica razziale, con tutto l’amore e tutta la fedeltà necessaria ad essere più forti, degni e capaci di vincere. E della razza saranno i più intransigenti e i più accaniti difensori. Nei figli vorranno che la razza sia sempre più pura”. Le macchie dell’apartheid lo insozzano un po’ dappertutto anche se tace sugli ebrei: «non scrissi di razze superiori o inferiori – spiegherà anni dopo – né la parola ebreo bensì che esistendo una razza italiana bisognava unificarla abolendo la divisione in razza di ricconi e razza di diseredati». Ha ventiquattr’anni e commette forse il suo errore più grave. Non è un caso che, da questo momento in poi, cominci a risalire. Seguiamolo.
Nel ’40 l’Italia entra in guerra e Chilanti è richiamato al fronte greco e albanese, però tra una partenza e un ritorno riesce a fondare la rivista Il domani con Gatto, Pratolini, Pasinetti, Antonioni, Cassola, Argan, Bo e altri: ne escono solo otto numeri perché i fascisti la sequestrano dopo i servizi dall’Albania inviati da Chilanti e la pubblicazione di un racconto firmato da Antonio Delfini, che s’intitola Fine di una festa e narra «la caduta del regime in provincia e un balenante avviso di rivolta popolare».
Allora di nuovo Roma e anni bui, ma adesso Chilanti ha deciso: i fascisti sono un danno e bisogna farli fuori. Allora complotta, coinvolge altri nel suo piano e… il 10 aprile del ’42 l’arrestano. L’Ovra l’accusa di aver macchinato l’omicidio di Ciano, Starace, Farinacci. Resta sei mesi a Regina Coeli. Lo torchiano e lui risponde: «il conte e qualche altro conte, sì signor commissario gridavo fra i miei amici, dovevamo liquidarli e catturare Mussolini di notte in un aeroporto, ma sì, appunto, come nei film, puntandogli le pistole alla schiena (…). Volevamo costringere Mussolini a parlare al popolo, lanciare un messaggio ordinare l’arresto di certi ministri e di miliardari traditori; proclamare pace e giustizia sociale».
Lo confinano a Lipari (nel frattempo s’è sposato e porta con sé moglie e figlia) e qui nasce un nuovo Chilanti, grato per il carcere, beato per l’esilio: infatti nel soffrire si libera dal fascismo, se lo scrolla di dosso e dopo l’otto settembre rientra avventurosamente a Roma per diventare partigiano, naturalmente a modo suo aderendo a Bandiera Rossa, gruppo di «trozkisti, anarchici, comunisti espulsi e radiati; fuori e contro il Cln». Anti badogliani, anti monarchici, anti svolta di Salerno, fortissimi nei quartieri proletari, tra loro milita anche Giuseppe Albano, il Gobbo del Quarticciolo che – rammenta Chilanti nelle sue memorie – «accarezzava il suo mitra e mi fissava, da ragazzo serio che uccide: ho saputo che eri un fascistone». Insomma truppa di scervellati cui però Felice si affratella prendendo anche l’incarico di divulgarne il giornale clandestino.
«Io approdai a Bandiera Rossa (…) da un vero naufragio, solo all’ultimo “riscattato” con una carcerazione che fu per me la prima “libertà”»: è suo questo ricordo ed è il caso di credergli, com’è genuino il suo dolore il 24 marzo del ’44 quando trucidano molti dei suoi amici alle Fosse Ardeatine e a lui stesso tocca fuggire «per le terrazze di Via Frattina e Borgognona». Dunque si salva con altri compagni «scavalcando mura, calandoci lungo tubature, e anche, al momento necessario, impugnando un’arma a sommità d’una scala, decisi a morire senza viltà e lasciando un segno della nostra partecipazione di combattenti a quella guerra».
Forse il naufrago ha trovato la sua rada e avanza nel nuovo mondo post fascista e anti nazista asciugandosi i piedi sulla sabbia calda, togliendosi gli stracci zuppi di dosso. Roma è liberata e poi il resto d’Italia quando però dal mare spunta un tentacolo che gli afferra la caviglia e lo tira indietro nell’acqua: qualcuno infatti gli mostra una foto dei fucilati di Dongo, gerarchi fascisti passati per le armi il 28 aprile del ’45, e Chilanti si sente svenire riconoscendo gli amici di un tempo (Bombacci, Ernesto Daquanno che fu suo direttore al Lavoro fascista, e altri ancora) e poi vede che a comandare il plotone c’era un suo compagno di Bandiera Rossa e questa foto è incredibile! Riassume tutte le vite che ha vissuto e lui, se fosse nello scatto, dove si metterebbe: tra i fucilati o tra chi fucila? Forse pensa: ma che razza d’italiano sono io e che razza di paese è questo?
Ma non c’è tempo per darsi risposte, bisogna andare avanti, combattere, prendere partito e alla Liberazione Chilanti trova lavoro un po’ dappertutto (Il Tempo, Milano-Sera, il Corriere della Sera dal quale si dimette perché gli tagliano i pezzi troppo di sinistra) oltre a entrare nel Pci «là condotto, al principio, da senso di colpa e spirito ribelle convergenti, paura e convinzione mescolate in unico magma tenace, resistente: torbido».