Sull’ultimo numero di Narrazioni (3, I semestre 2013), è uscita una recensione di Città distrutte firmata da Giuseppe Giglio. Il pezzo si conclude con una breve intervista.
«Leggere una pagina di Cechov è come mettere l’occhio su un vetro nitidissimo e guardare sotto scorrere la vita», diceva la Ortese. E si vede proprio scorrere la vita, a posare l’occhio sulle lucide e suggestive pagine di Città distrutte. Sei biografie infedeli, dell’esordiente romano Davide Orecchio, uscito per i tipi di Gaffi nel dicembre del 2011. Racconti infedeli, come recita il sottotitolo: perché Orecchio – narratore con solide basi storiche, e con il fiuto di un navigato archeologo – ha compiuto un felice tradimento sugli eterogenei materiali compulsati (fonti storiche, documenti d’archivio, note di diario, memorie, testimonianze, fotografie, persino quadri…). Si è cioè mosso tra documenti e immaginazione, i documenti aiutando a rendere probante l’immaginazione, per dirla con Sciascia. Sotto la lente della letteratura, ovvero di una finzione (di una menzogna, avrebbe detto Giorgio Manganelli) che smaschera finzioni: per mostrare la vita vera, vissuta.
E a proposito della Ortese: non manca, in questi racconti infedeli, una vigorosa vena visionaria, che ad Orecchio torna molto utile, mentre prova a muovere «ogni storia che meriti un posto nel ricordo», per dirla con l’io narrante; mentre prova cioè a raccontare l’uomo inventando, costruendo biografie (vengono facilmente in mente Lazzarillo de Tormes, Borges, Bolaño, il Pontiggia di Vite di uomini non illustri, a voler scoprire alcune tra le più nobili genealogie di ieri e di oggi: con la loro straordinaria linfa, in grado alimentare uomini veri, in carne e ossa, al contempo illuminando stagioni dell’esistere, squarci di vita collettiva). Nel segno del debenedettiano personaggio-uomo: quello che a ciascuno di noi sempre può somigliare, quello che, inventato, è più vero di tanti uomini reali. E che il narratore restituisce con un’azzeccata metafora, la città distrutta: «Certo, sono una città distrutta. Se Dio vuole, la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite», confessa la poetessa Betta Rauch (che scrive tutta la vita, senza pubblicare nulla, e dietro la quale si intravede l’ombra di Oretta Bongarzoni, la madre dell’autore, cui appartiene la splendida citazione: che tanta esistenza in sé racchiude), uno dei personaggi che animano il vividissimo teatro della memoria di Orecchio. Il quale pone i propri personaggi, le loro vite, davanti alla Storia. Ed essi ne escono sconfitti, devastati, inadeguati, irrisolti. Magari dopo aver animato una storia «oppressa dalla disgrazia d’essere accaduta», per riprendere le parole del grande e visionario narratore balcanico Danilo Kiš (forse una delle più preziose pezze d’appoggio di Orecchio), che nei suoi romanzi, come ricorda Milan Kundera, ha colto «i destini dimenticati sin dalla nascita».
Come succede con la desaparecida Éster Terracina, che muore sotto le torture della dittatura militare argentina, dopo essersi sostituita ad un’altra ragazza che le somigliava molto, e che aveva un figlio da crescere. O con il giornalista Pietro Migliorisi, personaggio squisitamente brancatiano, che sconta tutte le illusioni: «La povertà lo mise al mondo. Mussolini lo inghiottì. Bottai lo deglutì. Badoglio lo rigettò. Togliatti lo prese masticato e lo rimasticò. Stalin lo digerì. Gorbaciov l’ha evacuato». E che dire del regista sovietico Rakar (che ha molti tratti di Tarkovskij), che vive quattro anni d’esilio a Roma, senza riuscire a realizzare quel film che sterili burocrati di partito gli impedirono a Mosca? O di un diplomatico tedesco (dietro cui giganteggia Wilhelm Von Humboldt, il grande linguista e filosofo, che fu anche un diplomatico, amico di Goethe e Schiller) presso la Santa Sede, al tempo di Napoleone, che avrebbe voluto scrivere di poesia e di antropologia, e che ama perdersi tra le rovine della città antica, lui che è «spaesato nelle strade che ha dentro»? E a proposito di Napoleone: se è vero che la Storia poco o nulla ci dice dell’uomo di Waterloo, delle sue inquietudini, dei suoi errori, del suo difficile vivere quotidiano, quell’uomo magistralmente ce lo racconta Stendhal, in quell’indimenticabile affresco che è La certosa di Parma.
Orecchio si fa «pittore di parole», in questa notevole prova narrativa. Con leggerezza. Sorretto da un’ironia della scrittura che spezza la tragedia, qua e là disseminando invenzioni narrative e accensioni liriche. E dipinge le sue città distrutte, così pregne di destino: con certi giochi di luce che danno corpo ad una sorta di autobiografia del Novecento. Comprese tutte le brutture, le perniciose mitologie di quel secolo. Compresi tutti i nemici delle città: il potere, la repressione, le interruzioni imposte dalla Storia. Fino all’abolizione della memoria, al non compimento di ciascuna vita, quale conseguenza della violenza, di ogni tipo di violenza. E dipinge, Orecchio, con uno stile che ben traduce le sue visioni, e che lascia intravedere una sorta di ossessione: quella di chi una qualche traccia di quelle vite abortite (sul fronte esistenziale, come su quello estetico) caparbiamente vuol lasciare ai lettori. Che – come in un gioco di intelligenza attiva – possono trovare o ritrovare sé stessi, in quelle storie, e magari identificarvi anche un qualche segno cifrato del proprio destino. Tra le pagine di una prosa agile e potente, domestica e regale, in cui narrazione e saggismo rivelano una sorprendente maturità: quella di un vero narratore, che molto ha ancora da dire.
È un libro assai bello e insolito, Città distrutte. Che subito ha incontrato il successo di critica e di pubblico, addirittura procurando al suo autore più di un riconoscimento letterario, tra i più prestigiosi. Dal Premio Volponi al Super Mondello, dopo essere stato finalista al Premio Napoli. Tutto nel 2012. Non per niente l’editore ha previsto una nuova edizione, per il prossimo aprile. E intanto ne parlo volentieri con Davide Orecchio, di questa sua fortunata raccolta di racconti. E gli rivolgo qualche domanda.
Con Città distrutte racconti soprattutto l’inadeguatezza di tante vite, specie davanti alla Storia. Che spesso coincide con un grumo di sopraffazioni, quando non con una beffa. E lo fai dopo aver annusato un’epoca, per così dire. Come a cercare una maggiore verità per i tuoi personaggi inventati…
Prova a immaginare la frustrazione di uno storico, o di uno che s’è formato nello studio della storia, di fronte al documento: che può essere esaltante, emozionante, uno strumento attraverso il quale il passato torna in vita e ci parla, un po’ come un fossile per un geologo o la luce di una stella per un astronomo. Ma, dicevo, la frustrazione: perché il documento, come unica forma della realtà, è anche un arbitrio, può essere una menzogna, è sempre incompiuto, reticente, omissivo, e per di più pretende (sempre come forma della realtà) di comandare lo stile del racconto con la prepotenza e la maleducazione dell’accadere, di ciò che è stato e non è più modificabile. Allora la possibilità, non di tradire il documento e la verità storica, ma di assegnare loro l’abito di una funzione, di renderli strumenti ausiliari del gesto narrativo, di cementarli nelle fondamenta della fantasia-al-potere-della-scrittura: è un’operazione che, se uno se la consente e gli riesce, può dare soddisfazioni enormi. Ma attenzione: io in Città distrutte non ho scritto bugie. Ho camuffato documenti e testi. Ho inventato documenti e testi. Ho cambiato i connotati di persone e personaggi. Ma ho voluto dire sempre la verità: o la verità che io conosco o la verità secondo me, sul conto delle epoche e delle storie che provavo a raccontare.
La tua prosa continuamente intreccia narrazione e saggismo. Come nella nobile tradizione di quelli che Pirandello definiva «scrittori di cose». Anche se, nel tuo caso, prevale il narratore, sullo scrittore. Con una felicità di scrittura che riporta ad un grande narratore: Mario Soldati. Peraltro con un genere non molto diffuso in Italia: la biografia. Perché questa scelta?
Quella era la regola del gioco. Lo schema di gioco del libro. Una raccolta di ritratti o biografie fittizie che, però, asseconda a tutti gli effetti, nella parodia, l’impostazione del genere biografico. Nomi, date, fonti, il ritmo del tempo, i reperti, le testimonianze, le bibliografie: il piano saggistico, come dicevo sopra, usato in funzione di quello narrativo; ed è anche una voce esterna, una terza persona potenziata, che con una (falsificata) autorevolezza, l’autorevolezza dell’essere fonte, convince il lettore che i fatti sono andati a quel modo, che la verità accaduta e quella raccontata non divergono. Inoltre – e nell’anno di grazia 2013 non occorre che stiamo a ripeterci il mantra sulla crisi del narratore onnisciente, della terza persona che tutto sa e racconta – a me, che entro persino in gioco nella pagina, il piano documentale serve anche a dare un minimo d’equilibrio e “buon senso” a una narrazione fin troppo effervescente.
Un libro pluripremiato, il tuo. Ti aspettavi così tanta attenzione da parte della critica? Cosa hanno significato, per te, quei riconoscimenti?
Io i premi letterari li guardavo in tv (le nottate torride di luglio, Marzullo, i superalcolici) e ne leggevo sui giornali. Poi ne ho fatto una mia piccola esperienza diretta: il Mondello, il Napoli e il Volponi. E posso dire una cosa: questi premi hanno portato il mio libro dove non sarebbe mai arrivato. Nell’aula di una scuola a Bagnoli. Tra gli studenti di Palermo. Nelle mani di 240 lettori “forti” e appassionati in giro per l’Italia. Sotto gli occhi dei detenuti di Secondigliano e Poggioreale, che hanno letto e commentato Città distrutte per poi “restituirmelo” in due incontri emozionanti. Al di là del ricevere i premi, è stato il contesto a impressionarmi, assieme alle comunità virtuose di lettura che queste iniziative hanno fatto nascere.
Città distrutte, pur essendo il tuo primo libro, è di sorprendente maturità. Ed è come se avesse già dentro, come in nuce, tutti i temi che sceglierai di raccontare nei prossimi libri. Che cos’hai in mente, per il futuro?
Sto lavorando a un testo che non saprei incasellare in un genere. Non un romanzo vero e proprio. Non una raccolta di racconti. Potrei dire che è un romanzo di racconti. Un coro di storie e ritratti che s’intrecciano, dialogano tra loro nel corso del tempo e della storia, dove si parla di Sicilia, miniere, emigrazione, Argentina, dittatura, esilio… E di Roma, la mia città, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.