
«La guerra divenne l’elemento vitale del tenente Leszek Snica. Confessava a se stesso e agli amici che la guerra, da quando l’aveva conosciuta, era diventata nel suo intelletto quasi una prosecuzione, un ampliamento dell’attività artistica, un fiore che affondava le sue radici nella vita dell’uomo forte, dell’uomo creatore. Finalmente era caduto dalle sue possenti braccia creatrici tutto ciò che era meschino lavoro, preoccupazione di procurarsi cibi, bevande, indumenti, di sostenere famiglia. Era caduto come un inutile straccio. Tutto gli veniva consegnato in forma matematicamente perfetta, esatta, affascinante, ad una semplice richiesta: armi, indumenti, cibi, bevande, mantenimento della moglie e del figlio erano procurati con una puntualità al secondo da quella immane, complessa ed oltremodo possente macchina, che tutto pensava e tutto faceva ad un tempo, rispondente al nome di “Austria”. La sua vocazione di uomo, di marito, di creatore (la cui forza prorompente era guidata dalla saggezza) era diventata il valore, proprio il fine cui l’uomo creatore dovrebbe essere predestinato sulla terra. Quando il tenente Snica paragonava la sua vita precedente in Italia, una vita da furfante, da affamato, da vagabondo e da mezzo lazzarone, da “artista pittore”, con la sua attuale forza, tremava d’ira e vibrava di estasi. Là una nullità, qui un potentato. Potentato effettivo. La guerra aveva fatto sì che il mondo si spalancasse al suo sguardo intrepido e al suo pugno serrato.
Si dischiudevano tutte le porte delle case, ogni scrigno fino ad allora inviolato, si infrangevano tutte le leggi che chiunque avesse mai scritto, si disperdeva in polvere il codardo cuore umano, proprio quello stesso che egli, oggi, un guerriero intrepido, sei settimane prima portava sotto l’abito borghese. Conosceva quella miseria e perciò gli piaceva ora guardarla come un oggetto estraneo. Lo affascinava la vita vagabonda della guerra, senza né data né ora prevedibile, fitta di esperienze travolgenti, di avventure e di eventi fantastici, che non riuscirebbe a sognare il poeta dalla fantasia più esuberante. All’avidità del suo animo insaziabile si offriva un mondo splendido e indicibilmente interessante. Dietro ad ogni collina, dietro ad ogni bosco attendevano delle nuove fantasmagoriche manifestazioni, che avanzavano continuamente, immagini irreali, dagli anfratti misteriosi del tempo e dello spazio. Poteva entrare in tutte le case, ispezionare palazzi e ville, conoscere persone e rapporti sempre nuovi, indagare all’interno dei casi più complessi, largheggiare in grazie e punizioni, reggere le vite e le sorti degli uomini, secondo l’interesse segreto della guerra, il che si poteva, a seconda delle circostanze, identificare col capriccio dell’individuo: tutto ciò era veramente attività artistica. La creazione di quest’arte non si esauriva mai, e non si era mai sazi di ammirarla».
Stefan Żeromski, Charitas, (Dalla trilogia Lotta con Satana, 1916-1919), III ed., Warszawa, Czytelnik, 1956, in Mario Schettini (a cura di), La letteratura della Grande Guerra, Milano, Sansoni, 1968, pp. 1107-108, traduzione di Andrzej Zielinski.