Ha una voce gutturale, liquida, roca. Racconta Deserto rosso di Antonioni. Dice i colori del film. Rosso, amaranto, rosa, viola, nero, grigio. Descrive persone, paesaggi. Le parole s’impastano nel catarro, sembrano fragili quando scorrono su per la fiala del collo. Nel crogiolo c’è un’ebollizione. I due antipodi sono il coagularsi e lo squagliarsi: delle parole. Ma riesce sempre. S’inceppa solo due volte. Prosegue. Il testo è una chimica. A volte dimentica la necessità del microfono. Ora siede, risponde alla domanda, scorda il microfono sulla coscia, tira su il microfono con un gesto geometrico, per parlare ti serve il microfono, lo tira su come una stampella o una protesi inutile dopo la guarigione del corpo, il corpo del più grande scrittore vivente pensa che non gli occorra un microfono, forse neppure una voce, la voce prova a nascondersi dentro l’acustica non amplificata, il corpo trascura il microfono, ma per parlare oggi ti serve un microfono, ma per scrivere no. «Antonioni, Antonioni, Antonioni…»
Roma, 22 ottobre 2016, Auditorium, tra pomeriggio e sera.