Ho letto, sottolineato, annotato per una decina di giorni Cassandra a Mogadiscio, il nuovo libro di Igiaba Scego. Poi l’ho posato sul mio tavolo. Poi me ne sono andato in giro nelle mie giornate, nel lavoro, nelle perdite di tempo, ma dedicandogli sempre uno scompartimento dei miei pensieri; pensieri che adesso ho provato a organizzare negli appunti che ho pubblicato su Nazione Indiana.
Quando qualcuno evoca la parola “storia”, penso subito a biblioteche e archivi, a carte, documenti e libri, a parole scritte e tramandate: parole come pilastri, carte come mattoni sui quali edificare, appunto, una storia (e una lingua, e uno stile). Ma non sempre si può disporre di un archivio, di un lascito familiare, di un deposito genealogico, di lettere o diari preziosi.
Questo libro – è la mia impressione – risolve con ammirevole sapienza il problema delle fonti, ossia del metodo d’indagine (e l’autrice è lei stessa fonte) e il problema della forma, ossia di un’architettura narrativa che trasmetta la voce della memoria. Poi ci sono molti altri temi altrettanto importanti, ho provato ad accennarli nel pezzo.
Mese: febbraio 2023
«Come d’aria», il libro stoico di Ada d’Adamo
«I don’t see the point of privacy.
Or rather, I don’t see the point of leaving testimony in the hands or mouths of others.»
Harold Brodkey, This wild darkness
Scorre da decenni nella letteratura occidentale – diciamo dal tardo Novecento a oggi -, una corrente memorialistica, intima, per quanto possibile onesta che dà voce al racconto autobiografico della malattia, a volte propria, a volte di una persona cara e amata. Forse dovrei precisare che questa voce nasce da un bisogno, nella psiche e nel corpo, di tirare fuori il dolore da sé, di renderlo altro da sé, esterno nella pagina scritta, enunciato, procreato, partorito ottenendo un lieve, per quanto illusorio, distacco. Oppure il bisogno è di lasciare una testimonianza, la propria, quindi disintermediata rispetto a qualsiasi eredità testimoniale raccolta da altri.
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