Presente e passato, che fare

Pochi giorni fa, in uno splendido articolo su Avvenire, Lisa Ginzburg ha diagnosticato uno dei sintomi che mi paiono più flagranti in Mio padre la rivoluzione. Ossia il desiderio di infrangere le barriere che separano il presente dal passato. Per parlare con ieri e ascoltarlo, oppure per inviargli e riceverne lettere:

«Tutto il libro è una riflessione sull’incomunicabilità tra le declinazioni del tempo: tra presente e passato, tra qualcuno che “prigioniero incapsulato nel presente” è invece al passato che si rivolge, con la passione di ricercatore che già pensa al futuro, che vorrebbe le cronologie stravolgerle così da sovvertire ogni distanza, fluire in un’osmosi che azzera i modi verbali rendendo la diacronia un valore epistemologico, modo nuovo per concepire la storia tanto quanto la letteratura. Il Tempo, è lui il protagonista di questo libro bello e importante…».

Foto minimum fax

Accosto a questa lettura il controcanto lucido e attento di Andrea Caterini, pubblicato sul Giornale. Per il critico romano, che conosce molto bene il mio lavoro e i miei due libri precedenti, MPLR chiude una trilogia per ragioni che hanno a che fare coi contenuti e con un rischio:

«L’esaurimento di quei motivi che, se ripetuti ancora una volta, potrebbero farci percepire un affievolimento dell’originalità, anche stilistica».

Sull’esaurimento di certi temi non posso che essere d’accordo, è un rischio. Eppure il rapporto col passato è monogamico, duraturo, a volte incurabile; per me è difficile smettere. Fossi guarito, la chiuderei qui, e darei retta al saggio consiglio di Andrea Caterini. Ma devo correre il rischio, perché mi resta una cosa da fare, solo una e poi basta. Una cosa che in realtà avevo cominciato ben prima di Mio padre la rivoluzione, e che non è affatto vicina al concludersi. Vi ho dedicato troppi anni di studio, ed economia personale, per abbandonare. Il lavoro è ancora lungo ma, insomma – sempre che io trovi un editore –, sarà tetralogia, temo. O meglio: chiuderò una trilogia per me gnoseologica che comprende Città distrutte, Mio padre la rivoluzione e Pietro Migliorisi.

Poi mi fermerò. Anche perché sono abbastanza stanco.

I drammi dei poeti d’Ottobre

Avvenire del 22 novembre pubblica una bell’articolo e itinerario di Alessandro Zaccuri tra alcuni libri dedicati al 1917, incluso Mio padre la rivoluzione.

Il tentativo più vertiginoso di saldare fra loro letteratura e Storia, al punto da dissolvere la seconda nella prima, rimane quello compiuto da Davide Orecchio.

 

Massimo Onofri su Stati di grazia

Su Avvenire del 13 giugno 2014, Massimo Onofri recensisce Stati di grazia.
Avvenire

«Quello di Davide Orecchio, con Città distrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi 2012), fu uno degli esordi più belli e sorprendenti degli ultimi anni. (…) Potete capire, allora, con quale curiosità aspettavo il secondo libro, questo Stati di grazia. Ecco: che soluzioni avrebbe escogitato Orecchio per dare nuova forma al suo singolare, spurio, modo di raccontare? Che cosa ci avrebbe riservato la sua furiosa immaginazione epistemologica?»

«Orecchio è la dimostrazione che la nostra narrativa più carica di futuro non vive della invecchiatissima dialettica, tutta linguistica, tra infrazione e tradizione, ma è decisamente emigrata su un campo che è, soprattutto, gnoseologico. In altre parole: non è la sperimentazione linguistica che si porta dietro una nuova concezione del mondo, ma un problema rigorosamente conoscitivo che, coerentemente, si appronta la lingua solum sua per esprimersi e risolversi. Come questa di Orecchio, appunto: che è polifonica, piena di escursioni lessicali verso il basso degli idiotismi (ma anche l’alto d’una curiosa prosopopea), con quella sintassi da fabbro che forgia il suo nuovo, avida di misurarsi con tutte le sue possibilità, dalla prima persona del diario alla terza dell’avventuroso incognito, non senza la scrittura testimoniale, quella di chi chiama a giudizio»

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