Si dorme. Entri in scena la compagnia che rappresenta i miei sogni. In un teatro di provincia della psiche, ed è notte. Palco e sedili sono di sughero. Il sipario è di carta di riso. Il primattore è il suggeritore. Il regista vende i biglietti. I personaggi appariranno stonati, sfocati. Non loro. Loro. Non il mio gatto. Il mio gatto. Non l’amica, la madre, il padre. L’amica, la madre, il padre. La piccola compagnia non s’immedesima né strania, piuttosto usa il metodo dell’impaludarsi. Gli attori anche sono di sughero. Gli abiti di scena son sugherati. Gli attori in realtà sono di soia. È noto che la soia è doppiogiochista. La soia è capace di sembrare un hamburger (non è un hamburger). Nella periferia dei teatri dei sogni, dov’è in scena il mio sogno, la soia è il gatto, l’amica, il padre, la madre. Ma la soia non è il gatto e non è il padre. Materna non sarà mai, la soia. Sospetto che il primattore, il suggeritore, sia di sushi; il più falso dei cibi. Non puoi impersonare mio padre col riso, le alghe, il mirin, il salmone. Mio padre era crudo, ma non così crudo. Così la compagnia si condanna indigeribile alla periferia dei teatri dei sogni. Continua a leggere “Compagnia dei miei sogni”
Tag: sogni
Un sogno #3
Sulla scorza – di un VHS – senza colore come certi fenomeni – del sogno, del ricordo o del passato – appare – Riccardo Schicchi – seduto sullo sgabello – serio – la giacca, la camicia, la cravatta – da uomo Facis – presenta – la fanciulla Jeanne Cară – seduta sullo sgabello – sfrontata – Jeanne spazzola la cipria sugli occhi – da sinistra verso destra – e indietro – ma non chiude le palpebre – Jeanne guarda – qualcosa o qualcuno – un orizzonte – col disprezzo per il bisogno proprio e altrui – non necessitosa – contenta della spazzola – attrice del proprio esilio – e Schicchi: «Oggi ricomincia» – «una carriera interrotta» – «gli inizi e le promesse» – «il lutto» – «il dolore» – «ma adesso» – «Jeanne riparte» – «che la vita abbia inizio».
(Questo mio sogno nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013)
Un sogno #2
Un uomo – da una carrozza bianca – immerso nel profumo che maschera – i corpi non lavati – del passato – o forse del sogno – annuncia – malinconicamente – a una donna – che è finita – nell’avorio – dei loro vestiti – delle piume e dei ventagli – nell’oro dei bottoni e delle corde che stringono – l’uniforme – nel verde – scuro – della foresta – al crepuscolo – quest’uomo – si sporge – dalla carrozza – dal finestrino – attraverso il labbro e dai baffi – e: Addio – separiamoci – spezziamoci – farò di tutto per non dimenticarti – farò di tutto per non ricordarti.
(Questo mio sogno nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2013)
Un sogno
Ho sognato che Fidel Castro girava un documentario su Gregory Peck. Lo riprendeva durante un monologo in una piantagione di canne da zucchero. Lo inquadrava dal basso. Fidel Castro, sdraiato per terra con la telecamera nascosta in una valigia di pelle, istruiva Gregory Peck in spanglish o qualcosa di simile: “sigue hablando hasta que we show some photos of your family life”. Anche Gregory Peck aveva la barba. E parlava, parlava… Ora che ci penso, forse non era Gregory Peck. Forse era Julio Cortázar. (L’altra notte mi sono preparato un paio di rum&cola. Poi però mi sono accorto di non averci messo rum, ma tequila)